Le due non-riforme della Gelmini Giovanni Cominelli il Sussidiario 4.1.2012 Quali sono le prospettive delle politiche dell’istruzione nell’era del “governo tecnico”? Per rispondere a questa domanda occorre una qualche preventiva terapia del linguaggio. “Governo tecnico” è, in realtà, il nome dell’impotenza confessa della politica nel tempo presente. La maggioranza di governo si è trovata paralizzata di fronte alla crisi di origine interna e internazionale, con ciò aggravandone l’impatto ai limiti dell’irreversibilità catastrofica. L’opposizione ha avuto paura di andare alle elezioni, di rischiare di vincerle e di dover fare quelle stesse scelte, la cui mancanza rimproverava al governo in carica. Pertanto, maggioranza e opposizione hanno deciso bypartisanamente di concedersi “un anno sabbatico”, delegando ad una sorta di Comitato di salvezza nazionale le scelte che esse non erano in grado di compiere. Se si tratti anche di una sorta di “suicidio assistito” c’è da sospettarne. In ogni caso ha prodotto a tutti gli effetti “un governo di unità nazionale”. Déja vu! Negli anni 1976-78 questa scelta provocò l’assassinio di Moro e l’avvio della fine della Prima repubblica. Questa volta, meno tragicamente, il governo di unità nazionale chiude i battenti della Seconda repubblica. Il governo Monti è un governo politico per interposta persona ed è un governo a tempo. Porta la croce altrui come il cireneo. Pertanto sia a coloro che la auspicano sia a coloro che la temono va fatto notare che non è praticabile nessuna scorciatoia tecnocratica per sbrigare le due pratiche che la Gelmini ha lasciato sul tavolo. Tutto continua a restare in mano alle forze politiche, lo vogliano o no. La prima pratica è quella della realizzazione del tirocinio formativo attivo (Tfa), il cui avvio era stato previsto nella lettera del ministro Gelmini ai sindacati del 10 agosto 2011. Intanto: quali sono i numeri esatti in ballo? La legge stabilisce che l’accesso al Tfa non debba sforare il tetto dei posti effettivamente disponibili – dei quali la metà spettante ai precari in graduatoria – maggiorato del 20 per cento. Ora i posti disponibili sono certamente diminuiti. Voci insistenti – di cui è doveroso qui dare conto – danno per certo un rinvio del provvedimento sul tavolo del ministro da parte del Consiglio di Stato a causa del mancato rispetto della legge, cioè per “sforamento”. Finché continua la danza dei numeri, inaugurata dal ministro Gelmini per accontentare – ma solo a parole – gruppi di pressione interni alla ex-maggioranza, si rischia soltanto di far ripartire il meccanismo perverso della riproduzione di precariato. Abilitare tutti e dare il posto a pochi, significa, infatti, creare una vasta “terra di mezzo” di abilitati senza posto, destinati a diventare la base del nuovo precariato. Prima tutti i laureati si aspettavano il posto. Ora tutti gli abilitati, per un’illusione di secondo livello. In questo contesto la proposta del ministro Profumo di un ritorno ai concorsi nazionali, decentrati per regione, suona come una fuga in avanti, al netto delle commendevoli buone intenzioni. E non solo perché il tempo del governo è breve. Il guaio è che il meccanismo dei concorsi è da sempre rivolto al solo accertamento del possesso di conoscenze, mai a quello della capacità di usarle nel contesto educativo e didattico. Mentre le conoscenze si accertano mediante prove scritte e orali – è il modello accademico classico – le competenze-chiave professionali di un docente richiedono altre tecniche: presentazione di portfolio professionale, osservazione diretta sul campo da parte di ispettori, raccolta di giudizi dall’ambiente circostante, colloqui personali. Come non reclutare lo si potrebbe evincere mettendo sotto la lente il recentissimo concorso per dirigenti. Alla fine della trafila quiz – prove scritte – prove orali, nessuna competenza-chiave del dirigente sarà accertata, salvo eccezioni. Il meccanismo dei concorsi della Pubblica Amministrazione – di cui la scuola continua a far parte – è iper-obsoleto. Riproporlo nell’anno 2012 la dice lunga sulla resistenza ostinata del blocco storico conservatore bypartisan e sulla geometrica potenza del pensiero unico statal-burocratico. Questo meccanismo centralistico si espone, già ora, alle forti ed efficaci pressioni spartitorie e corruttive di partiti, di sindacati e di associazioni professionali. Nell’ipotesi che soggetto reclutante divenissero le reti di scuole, senza che venisse cambiato radicalmente il sistema di accertamento – dalle conoscenze alle competenze – la permeabilità all’intervento corruttivo esterno aumenterebbe smisuratamente. Ogni comunità educante ha il dovere – e perciò il diritto – di reclutare personale coerente con il proprio progetto educativo e formativo. A due condizioni: che si accertino in modo pubblicamente inoppugnabile le competenze professionali del candidato; che il dirigente scolastico, cui spetta la decisione finale di assunzione, sia valutato e paghi immediatamente le conseguenze di scelte cattive. Qui si sfoglia il dossier della seconda pratica importante rimasta aperta sul tavolo del ministro Gelmini. Quella della valutazione esterna degli studenti, degli insegnanti, dei dirigenti, delle scuole. L’Invalsi è tutto ciò che abbiamo. Esso accerta alcuni apprendimenti-chiave di fasce di classi e in alcuni passaggi decisivi (terza media – prossimamente la maturità), li elabora, li restituisce a livello nazionale e alle singole scuole. Una valutazione esterna pare necessaria, soprattutto in conseguenza del fatto che i parametri di quella interna sono totalmente saltati tra Nord e Sud, tra settori e indirizzi, tra classe e classe. Il valore legale del titolo di studio condiziona pesantemente in senso negativo la qualità della valutazione interna. Ma resta che la valutazione esterna, puramente statistica, va incontro a parecchi inconvenienti. Per valutare il funzionamento di una scuola o le capacità di un insegnante o di un dirigente, non bastano i test: occorre l’osservazione prolungata diretta. A suo tempo, nel luglio 2001, la Moratti decise che il modello Ofsted degli inglesi, fondato sull’ispettorato, non fosse praticabile in Italia. E scelse il metodo Invalsi. Ciononostante, anch’esso fu ostacolato da un basso investimento iniziale in risorse finanziarie e umane. I dati delle singole scuole non furono mai resi pubblici. Senza pubblicità dei dati, senza trasparenza non nasce nessuna consapevolezza da parte dei genitori e dei ragazzi, e perciò non si accumula nessuna massa critica per le riforme. La scuola resta una turris eburnea. Alla buona notizia che il ministro Profumo ha dato circa la futura trasparenza e pubblicità dei dati relativi alle scuole si dovrebbe aggiungere anche quella della obbligatoria pubblicità dei risultati delle valutazioni. Quanto alla valutazione dei docenti – finito nelle nebbie ministeriali il Sivadis per valutare i dirigenti – il Progetto Valorizza è rimasto fumo negli occhi ed è fallimentare. Deve essere solo chiuso – almeno per quanto riguarda i docenti – nonostante le pressioni interessate delle tre Fondazioni, che chiedono di continuare a tenerlo in piedi per un altro anno. Rifiutato con pessime intenzioni, ma con fondati argomenti, dai Collegi dei docenti e dalle organizzazioni sindacali, esso è servito a non affrontare la questione decisiva: quella della carriera e dello stato giuridico dei docenti. Vari progetti di legge sono stati presentati in questo decennio in Parlamento, bypartisanamente concorde sul rinvio permanente. E poiché l’unico documento ancora vivo nella Commissione cultura della Camera è il Pdl 953, di lì occorre ripartire. I tempi tecnici ci sono. Sul tavolo pubblico del Paese resta aperta, nonostante i timidi cambiamenti della cosiddetta “riforma” Gelmini, l’intera questione educativa e formativa: le riforme istituzionali, curriculari, ordinamentali e del personale sono solo enunciate e, alla fine, rinviate. Che esse passino hic et nunc sul tavolo del governo Monti pare essere irrealistico. Le LIM e tutta la tecnologia digitale restano solo “quisquiglie e pinzillacchere”, se non si avviano quelle riforme. Su queste sarebbe almeno auspicabile che le forze politiche, liberate dalle necessità del consenso quotidiano, si confrontassero in quest’anno cruciale, sabbatico per loro, ma non per il Paese. |