scuola

La "riforma Berlinguer"
di cui Profumo ha bisogno

Giovanni Cominelli il Sussidiario 23.1.2012

La retromarcia del ministro Profumo sulla durata del periodo di studi lascia intatto il problema e legittima, in ogni caso, alcune considerazioni in proposito. Ciò che preoccupa non è il disallineamento tra il tempo-scuola del sistema di istruzione italiano e quello dell’Europa o dell’Ocse, ma tra gli assetti curricolari, istituzionali, ordinamentali del sistema di istruzione e di educazione italiano e il tempo di vita dei ragazzi che lo frequentano. La corrispondenza tra l’itinerario di crescita dei ragazzi e gli step previsti dagli ordinamenti è il solo criterio di giudizio da adottare, sennò la discussione diventa astratta. Si può stare a scuola anche fino a 19 anni: il problema è che cosa ci si mette dentro, anno dopo anno!

Da quando è stato fondato nel 1859, il sistema educativo nazionale è cresciuto per numero di materie (nel 1859 le materie del liceo erano sette), di ore al giorno, di giorni all’anno, di anni della vita, mentre le sue performances continuano a calare. In parole povere: i ragazzi sanno sempre di meno e sono in fuga. Le ragioni di tale dilatazione sono molteplici e intrecciate, alcune interne al sistema, altre esterne. Tra quelle esterne: leggi più umane hanno portato ad escludere dal mercato del lavoro prima i fanciulli (nelle miniere entravano a quattro anni), poi i ragazzi. E’ stata perciò “inventata”, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’adolescenza. Lo sviluppo industriale ha richiesto manodopera più colta e professionalizzata, perciò più scolarizzata. A quelle interne, appartiene il mito enciclopedico-positivista, associato ben presto a quello egualitario: più sai, più sei libero, più sei uguale. E – ma qui balziamo già negli anni settanta del Novecento – più materie si introducono, più cattedre ci sono. E così si risponde anche alla sovrabbondanza di disoccupazione intellettuale.

Il ministero dell’Istruzione è diventato il ministero del lavoro intellettuale. Quanto ai ragazzi, investiti quotidianamente dalla pioggia leggera dei coriandoli multicolori dei saperi, apprendono sempre di meno. Domanda: sono istupiditi dal web – e dal “nichilismo senza abisso” – oppure il sistema resta al di sotto e al di qua del loro bisogno di sapere e di significato per la loro vita? All’inizio di questo millennio, insegnanti e genitori si trovano davanti dei ragazzi – da 3 a 19 anni – antropologicamente molto diversi rispetto a quelli dei decenni precedenti. Intanto, ed è il dato più clamoroso, l’adolescenza incomincia ormai a 11 anni; attorno ai 15/16 anni passa già nella “giovinezza”, destinata a durare fino ai 34 anni (se dobbiamo accettare i confini generazionali definiti dai sociologi). Qui si mischiano cause bio-psichiche (alimentazione, stimoli relazionali, intellettuali e informativi) e socio-politiche: in particolare, il funzionamento del sistema economico-sociale e produttivo e del mercato del lavoro.

Poiché la transizione al lavoro in Italia dura l’eternità di 11 anni, la scuola e l’università – oltre che la famiglia di origine – diventano luoghi di parcheggio e di rinvio del confronto con il mondo reale. Di cui diviene illusorio surrogato “l’impiego” del tempo di vita nello studio di più di una decina di materie nel ciclo secondario di primo e secondo grado e nella frequenza di corsi universitari, moltiplicatisi in maniera tumorale nel corso del decennio appena trascorso.

Come a dire: l’attuale funzionamento del sistema di istruzione è una variabile dipendente di quello socio-economico e perciò anche di quello politico. Ma vale anche il viceversa: il sistema di istruzione è, a sua volta, un fattore attivo di riproduzione del sistema socio-economico. Pertanto, evitando di rifugiarci nell’attesa escatologica del cambio del sistema socio-economico – la quale funziona irrimediabilmente da alibi per non cambiare da subito quello di istruzione e educazione – alcune linee di innovazione di quest’ultimo sembrano ormai inevitabili e agibili.

La prima: passare dal curriculum enciclopedico al core-curriculum. Per ipotesi: Lingua prima, Matematica, Scienze (Fisica, Chimica, Biologia), Storia (dei tempi e dei luoghi), Economia e Diritto, Lingua straniera. E le altre materie, tutte difese come “essenziali”? Diventano facoltative. E le cattedre corrispondenti? Facoltative. La revisione epistemologica delle discipline, la loro riduzione a sei/sette, l’apprendimento lungo e severamente certificato di quelle essenziali, la validazione di quelle opzionali stanno a monte di ogni discorso di riduzione degli anni-scuola. Prima del quale, tuttavia, viene – sono d’accordo con Cereda – quello di un nuovo assetto degli ordinamenti.

Gli ordinamenti moderni sono stati proposti dalla Ratio studiorum nel 1599 (quando l’adolescenza non era prevista!) e sono stati variamente modificati nel corso dei secoli. Oggi essi sono articolati in tre segmenti diacronici: scuola di base, scuola secondaria di primo grado, scuola secondaria di secondo grado, quest’ultima suddivisa in tre grandi partizioni (licei, istituti tecnici, istituti professionali di Stato), a loro volta suddivise in indirizzi, che avevano raggiunto il numero stellare di 720 e che la Gelmini ha ridotto. Questi ordinamenti secolari sono all’altezza dell’antropologia attuale dei ragazzi, della struttura socio-economica della terza rivoluzione industriale – centrata sul sapere come materia prima e forza propulsiva fondamentale, sul Life Long/Life Wide Learning –, degli scenari biografici che prevedono che i nati in questi anni avranno un’attesa di vita più che centenaria? Ha ancora senso il “buco nero” della scuola media? E una rigida distinzione tra licei e istruzione tecnica? E prolungare dentro l’università una liceizzazione vorace – cui non bastano 5 anni di istruzione secondaria, proprio perché invasi da coriandoli multicolori di frammenti di saperi irrelati – invece che puntare decisamente e da subito sulla ricerca e sulla professionalizzazione rigorosa?

A queste domande io rispondo no. I ragazzi hanno bisogno di conoscenze fondamentali/competenze-chiave per la loro umanità e per la loro cittadinanza, prima di avviarsi verso il lavoro o verso la ricerca o le professioni. E hanno bisogno di conoscenze “vocazionali” o “di indirizzo” per scegliere quali tappe successive percorrere. Queste conoscenze/competenze e conoscenze per l’orientamento possono essere conquistate entro i 17/18 anni (senza dimenticare che alcuni possono raggiungerle anche a prima e altri anche dopo). Uscire a 17/18 anni è possibile ed è necessario, con delle competenze-chiave che dureranno a lungo e con delle competenze vocazionali che dovranno essere periodicamente rinnovate. Poiché sulle conoscenze/competenze-chiave si incomincia a lavorare già dai 3 anni di età, è possibile, man mano l’età cresce e a seconda della personalità di ciascuno ragazzo, restringere il tempo delle competenze-chiave e dilatare, attorno ai 14/15 anni, quello delle conoscenze/competenze vocazionali o di indirizzo.

Per raggiungere questo obiettivo non è affatto opportuno ridurre a quattro anni il percorso secondario superiore. Luigi Berlinguer aveva proposto la soluzione di chiudere “il buco nero” della scuola media, assorbendo nella scuola di base i primi due anni della scuola secondaria di primo grado e l’ultimo in quella di secondo grado. L’analisi retrostante era che la scuola media era ormai disallineata rispetto ai tempi dello sviluppo bio-psichico e intellettuale dei ragazzi e perciò veniva rifiutata, trasformandosi nel “buco nero” che inghiottiva e disperde, tuttora, migliaia di ragazzi. Dallo schema 5+3+5 si passava allo schema 7+5, da 13 anni passati nella scuola a 12. Contro l’ipotesi di Berlinguer si scatenò una canea di insegnanti e di sindacati, che il centro-destra dell’epoca cavalcò, furbescamente convinto che il consenso del blocco conservatore avrebbe riempito il suo carniere elettorale.

Previsione realizzata. Perciò la Moratti abolì la Legge 30 di Berlinguer e ripristinò il 5+3+5. Salvo poi scoprire che il sostegno peloso dei conservatori terminò non appena il centro-destra tentò di mettere a punto, a sua volta, innovazioni istituzionali e ordinamentali. Ai quali il centro-sinistra fece opposizione e, sempre a sua volta, incamerò i voti del blocco conservatore, che Fioroni assecondò ampiamente con “la politica del cacciavite”. Certo, il progetto di Berlinguer presentava l’inconveniente dell’onda anomala di iscrizioni che si sarebbe formata in un certo anno, dovuta alla sovrapposizione temporale tra vecchio e nuovo ordinamento previsto. Inconveniente in parte rimediabile, e comunque transitorio. Ma questo fu l’alibi agitato nelle scuole e nelle piazze e rappresentato in Parlamento.

Potrebbe ora il ministro Profumo riprendere l’intero progetto? Poiché il governo Monti è sorretto, come tutti i governi precedenti, da una maggioranza parlamentare, è a questa che si deve girare il quesito. E la domanda è semplice: intendono sottrarsi, di qui in avanti, le forze politiche ai ricatti bypartisan esercitati pendolarmente verso il vecchio centro-destra e verso il vecchio centro-sinistra da parte del blocco conservatore scolastico, unicamente preoccupato del numero di cattedre da assegnare e non del destino formativo ed educativo dei ragazzi? Se sì, si può fare in fretta. Se, invece, ciascuna forza politica continuerà a tenere gli occhi bassi verso il consenso di oggi, che proviene dai settori più accanitamente corporativi della società civile e dell’universo scolastico, e non alzerà lo sguardo verso il domani dei ragazzi e del Paese, allora non si farà né ora né mai.