De Maio: col 3+2 ci si laurea prima, intervista di Claudio Perlini a Adriano De Maio il Sussidiario 24.1.2012
MICHEL MARTONE: IL CASO. «Le
affermazioni del viceministro Martone possono essere considerate
anche giuste se le persone a cui fa riferimento nel suo giudizio
sono ragazzi e ragazze che hanno come unico impegno quello dello
studio per laurearsi. Ci sono però tanti giovani che durante gli
studi svolgono altri lavori, oppure hanno tanti altri impegni,
allora può darsi che quello che dice Martone non sia così vero. Non
si può dire con certezza che chi si laurea a 28 anni sia un
fannullone o uno sfaticato, perché probabilmente potrebbe trattarsi
non di una scelta ma di un obbligo legato a problemi familiari,
finanziari o di lavoro. Credo quindi si tratti di una banale
generalizzazione, da cui ormai anche io mi astengo da anni». Adriano
De Maio, professore di Economia e gestione dell'innovazione
nell'Università Luiss Guido Carli commenta in questa intervista per
IlSussidiario.net le parole del viceministro del Lavoro, Michel
Martone, secondo cui è necessariso cominciare a «dare nuovi messaggi
culturali: dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora
laureato a 28 anni sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto
professionale sei bravo e che essere secchioni è bello, perché vuol
dire che almeno hai fatto qualcosa». Insieme al professor De Maio
parliamo anche del rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli che ha
fatto un primo bilancio della riforma “3+2” rispetto al mercato del
lavoro: lo studio rivela che i “nuovi laureati” (questo anche il
titolo del rapporto) non guadagnano molto più di coloro che hanno
scelto di fermarsi al diploma, quindi in sostanza la triennale fa
trovare spesso lavoro, ma con stipendi sempre più bassi.
Non è facile commentare i dati forniti
dal rapporto, e bisogna evitare di incappare in ulteriori
generalizzazioni. Sarebbe necessario fare una valutazione del prima
e del dopo, in cui si analizzi anche l’evoluzione, o in alcuni casi
l’involuzione, degli istituti tecnici industriali. Il nostro Paese
vantava una grande tradizione di questo tipo di istituti, e ora mi
chiedo dove siano finiti. In passato potevamo fare a meno del primo
livello di laurea, a differenza di quasi tutti gli altri paesi del
mondo, perché avevamo un invidiabile sistema di formazione degli
istituti tecnici industriali.
Qualche istituto tecnico ha mantenuto
questi standard, in alcuni casi anche migliorando, mentre altri sono
incredibilmente peggiorati, per cui per fare un bilancio della
riforma del “3+2” rispetto al mercato del lavoro bisognerebbe
pensare ad un’analisi comparativa sulle scuole medie superiori,
soprattutto nei settori tecnici, come geometri, periti, ragionieri e
così via, confrontandole con tutto quello che viene dopo.
Personalmente ho dei dubbi su questa
riforma, soprattutto perché nonostante il cambiamento è rimasto lo
stesso corpo docente, che invece credo debba essere adeguato
rispetto al tipo di formazione che si vuole dare. Ci sono
straordinari professori di liceo che sarebbero mediocri professori
universitari, ma anche viceversa, perché ci sono ottimi docenti
universitari che al liceo non saprebbero dimostrare le loro
capacità. Il tema delle competenze non è mai stato affrontato, come
non è mai stata fatta l’analisi di che cosa ha significato per
ingegneria una riduzione, che ora fortunatamente si sta attenuando,
della presenza di professionisti nell’ambito della docenza
universitaria.
In generale sì, perché prima di tutto
si assumono delle competenze maggiori, ma bisogna comunque fare una
riflessione: a suo tempo, io non avrei mai saputo fare il lavoro di
un ottimo diplomato perito industriale, e c’erano posti di lavoro
per ogni competenza specifica. Bisogna quindi vedere cosa oggi
richiede il mercato del lavoro rispetto alle varie qualifiche
professionali e al grado di competenze. Per rispondere quindi alla
domanda, per qualcuno sicuramente sarà più semplice trovare un
impiego, ma vorrei lanciare una provocazione, che non è solo una
domanda retorica: possiamo ipotizzare che il laureato abbia più
possibilità di trovare lavoro soltanto
perché la formazione della scuola precedente non è in grado
di formare figure pronte per il mercato del lavoro?
L’innovazione e lo sviluppo industriale italiano sono stati in buona
parte merito dei cosiddetti “peritoni”, i grandi periti industriali
e geometri, mentre gli ingegneri, i fisici e i chimici non sarebbero
stati in grado di fare lo stesso. Ora mi chiedo quindi se gli
istituti di oggi riescano a offrire le stesse competenze teoriche e
pratiche.
Anche qui è necessario fare le giuste distinzioni. In facoltà come
ingegneria, chimica, fisica e medicina il numero dei disoccupati non
raggiunge mai soglie altissime. Dipende quindi dalla facoltà, e non
è possibile parlare di università in generale, perché altrimenti si
banalizza un concetto che andrebbe invece analizzato più a fondo.
Certamente, ma questo non deve voler significare un abbassamento di professionalità generale. Poi il tema della produttività legata all’assunzione di diplomati e laureati riguarda più che altro il sistema organizzativo, gestionale e strategico dell’azienda. |