Israel: tutti i motivi per dire no Giorgio Israel il Sussidiario 2.1.2012
Poco più di un mese e il ministro
dell’Istruzione Francesco Profumo ha sparigliato le carte che
stavano ordinate sul tavolo del Miur. La sua proposta del concorso
ha avuto reazioni contrastanti e sulle prime non si è saputo bene
come prenderla. Sono diversi però, oltre all’idea di un maxi
concorso che si attende di capire come potrà avvenire, i nodi che
attendono di essere sciolti. Certo se ne saprà qualcosa di più dopo
che il ministro avrà fatto l’audizione in Commissione cultura di
Camera e Senato, prevista intorno al 10 gennaio. Nel frattempo
Giorgio Israel, docente di matematica nell’Univesità di Roma, fa un
punto sulle principali questioni aperte.
Non ritengo che la tematica dei
concorsi debba essere proscritta a priori. Il reclutamento è una
delle questioni centrali della scuola e il ministro ha manifestato
la sua preferenza per l’approccio concorsuale. Ciò è legittimo e,
rispetto ad altre proposte circolanti, quella del reclutamento per
via concorsuale è tutt’altro che debole. Il problema che si pone
però è che, dopo un quindicennio di interruzione dei concorsi e dopo
4 anni di stasi nella formazione degli insegnanti, mettere in campo
un maxi-concorso è un’impresa titanica e con molti rischi.
Il modo con cui il ministero ha
affrontato il maxi-concorso per i dirigenti scolastici non depone
affatto a favore della sua capacità di gestire un’impresa del
genere. Inoltre, avviare un maxi-concorso prima che siano partiti i
TFA (tirocinio formativo attivo) e le lauree magistrali per
l’insegnamento è molto avventato: assisteremmo a un’ondata di
ricorsi vincenti. Il ministro farebbe bene a chiudere
definitivamente quel capitolo e poi ad aprire una riflessione sul
reclutamento, anche propugnando la soluzione concorsuale. Nella
consapevolezza però che, dopo l’avvio preliminare dei TFA e delle
lauree magistrali, l’anno e mezzo di orizzonte governativo sarà
trascorso, a meno che non si stia già programmando la successiva
legislatura.
Non capisco questa espressione, che sembra indicare la volontà di
affrontare tematiche molto vaste e non «transitorie». Se si tratta
di portare a regime ciò che è stato varato, la prima esigenza è
avviare rapidamente la formazione degli insegnanti. Il ministro ha
affermato di volerlo fare, ma non si capisce che cosa impedisca di
fissare finalmente i numeri di TFA e lauree magistrali. È uno
scandalo che il Miur continui a menare il can per l’aia su una
questione che potrebbe essere risolta in una mattinata. Ho vissuto
quella odissea quadriennale, e quando leggo la sequenza di
prescrizioni, consigli, riserve, richieste di modifica, che vengono
avanzate proprio da chi ha consumato quattro anni di vita a
ostacolare il nuovo regolamento per la formazione, mi rendo conto
che è difficile vincere interessi corporativi ostinati, pervasivi e
prepotenti. Ma un governo tecnico non dovrebbe potersi muovere senza
badare troppo a questi interessi? Se il ministro non riesce a
chiudere in tempi strettissimi, è difficile che possieda la forza
necessaria ad affrontare un’agenda ambiziosa e vasta come quella che
sta proponendo.
Non esistono governi tecnici e non starò qui a dire qual è il
profilo politico di questo governo, poiché è chiaro a chiunque non
voglia chiudere gli occhi di fronte all’evidenza. Le scelte di
questo governo non sono in Italia, sono a Bruxelles, e fortemente
condizionate dal dettato tedesco. Non trovo strano che anche in tema
di istruzione il governo Monti si appresti a seguire pedissequamente
il dettato «europeo», il quale consiste di prescrizioni
tecnocratiche, volte a garantire la massima mobilità del mercato del
lavoro, in conformità con le famose competenze di Lisbona. Cultura e
istruzione c’entrano poco: c’entra soprattutto la formazione della
forza lavoro.
No. E infatti, l’ultima fase del ministero Gelmini ha peccato per
essersi piegata a questa visione che ora prende ancora più forza e
si giova di tutte le nomine e le scelte fatte in quella fase
precedente. L’istruzione italiana è sempre più a guida
bancario-confindustriale, e questa è una scelta molto ma molto
politica. Un tempo si poteva dire che l’istruzione era in mano a
lobbies di pedagogisti. Oggi anche i pedagogisti, se non vogliono
essere estromessi, debbono fare da foglia di fico di scelte
economiciste. E difatti si cominciano a sentire molti lamenti da
parte dei più consapevoli tra di loro...
Prima vorrei dire un’altra cosa. Trovo assurdo che nel contesto di
una serie di “consigli” per salvare la situazione economica del
paese si indichi come prioritario il tema della valutazione. Non
perché sia contrario alla valutazione, sia ben chiaro: questa è una
giaculatoria che occorre fare altrimenti si viene linciati. Ma è
ridicolo pensare che l’introduzione di un sistema di valutazione
possa condurre a un miglioramento del livello dell’istruzione tale
da produrre risultati efficaci sul piano economico e favorire lo
sviluppo. In realtà, quel che sta a cuore alla tecnocrazia che
insiste su questo tema è di trasformare il sistema dell’istruzione –
sotto l’impulso di una didattica sempre più basata sui test, sul
teaching to the test, sulla frammentazione del sapere in abilità
pratiche di valore immediato – in una fabbrica di “addetti”
direttamente fruibili nel processo produttivo. Si potrebbero
proporre discorsi di difesa della cultura, dei valori, sottolineare
come su questa via si formino giovani privi di “ideali”.
Una persona che si occupa specificamente di formazione quadri
osservava che oggi ci troviamo sempre più di fronte a giovani che
non hanno appreso altro che a pensare “oggi farò questo”, “domani
quest’altro”, che hanno la testa imbottita del “fare” e svuotata di
capacità progettuale, più in generale della capacità di pensare cosa
fare della propria vita. Non è la scuola delle competenze e dei
saperi sgretolati in mille nozioni a quiz che può creare questa
capacità. Ma, oltretutto, il fatto ironico è che una scuola
finalizzata al processo produttivo finisce col distruggerne
l’efficacia, perché senza cultura e scienza di base non v’è alcuna
possibilità di effettivo progresso. Eppure, non passa giorno che non
si predichi che la ricerca di base e la cultura non servono. Non
passa giorno senza che ci si propini il tormentone della scuola che
deve apprendere a “fare”. Giorni fa Pier Luigi Celli ha persino
proposto che i docenti universitari debbano fare un semestre
periodico di “stage” in azienda. Me lo figuro un filologo classico
in un mobilificio. Il punto è che per gli eurotecnocrati la cultura
e la scienza di base non si mangia: il sistema dell’istruzione deve
ridursi a un’enorme scuola di formazione di tecnici, al massimo di
ingegneri.
Ecco, veniamo all’Invalsi, perché non voglio proprio far carico
all’Invalsi di colpe che non sono sue, quali quelle relative ai
processi che criticavo prima. L’Invalsi può avere tre funzioni: 1.
offrire elementi di valutazione del sistema scolastico; 2. valutare
gli insegnanti, e 3. sostituirsi agli insegnanti nel valutare gli
studenti. Ho scritto in un articolo che il ministro dovrebbe
applicare l’Invalsi al primo compito, muoversi con i piedi di piombo
sul secondo aspetto, e astenersi assolutamente dal terzo. Invece,
già il ministro Gelmini aveva pensato di sostituire l’esame di
matematica e inglese in terza media con un test Invalsi. Questo
porta né più né meno al teaching to the test e può avere conseguenze
distruttive.
Infatti. Critiche di merito, specifiche e dettagliate, in
particolare sui test di matematica e di italiano. Non ho ricevuto
una risposta degna di questo nome. Ho letto soltanto riaffermazioni
di principio della bontà delle scelte dell’ente, con una prosopopea
saccente e arrogante non degna di persone che dovrebbero essere
preposte a giudicare in modo “oggettivo” il sistema dell’istruzione.
Si è tentato di dipingere chi ha criticato nel merito come un
agitatore di principio. Ho raccolto, oltre alle mie personali
osservazioni, molte critiche di merito e ben argomentate da parte di
tanti insegnanti. Ma tutto questo viene ignorato con sprezzo. Che
titoli ha un ente che si comporta in questo modo di giudicare gli
insegnanti e addirittura di sostituirsi a loro nel valutare gli
allievi? Questa è la critica specifica che mi sento di rivolgere
all’Invalsi per quel che ha fatto finora. Esso non ha dato prova di
essere capace di allargare le sue funzioni addirittura ai punti 2 e
3, quando anche sul primo farebbe bene a ripensare a fondo il suo
modo di procedere.
È un’idea ridicola e inconsistente come quella che esistano governi
tecnici al di fuori della politica. Chi nominerà i dirigenti
dell’Invalsi? A quali organi di controllo saranno soggette le scelte
dell’ente? La valutazione ha senso se è un processo interattivo in
tutte le direzioni. Non esistono “unti del Signore” dotati della
capacità speciale e insindacabile di valutare gli altri. Il giorno
in cui venisse fatta una scelta del genere sarebbe la fine della
dignità della funzione insegnante che ogni giorno si strombazza di
voler difendere. Sarebbe peraltro una scelta funzionale a quella
visione tecnocratica che denunciavo prima: un sistema
dell’istruzione messo in mano a manager, in definitiva messo in mano
alla peggiore politica. È il modello che abbiamo sperimentato nelle
Asl, con quali risultati è superfluo dire.
È indubbio che gli insegnanti debbano essere valutati! E non capisco
cosa voglia dire “su base volontaria”. O si tratta di una
valutazione che riguarda tutti o non ha il minimo senso. Come? Ho
provato a delineare un sistema di ispezioni interattive in un
documento che è facilmente reperibile. Confesso di essere alquanto
stanco nel doverlo riproporre. Chi vuol leggerlo lo troverà
facilmente: sono proposte precise e concrete.
Forse si potrebbe non parlarne neppure perché, con i tempi che
corrono, non so dove potrebbero essere trovate le risorse per
estendere un modello premiale del genere a tutta la scuola italiana.
Comunque, nel merito non ho mai condiviso quel progetto per ragioni
che ho spiegato anche su questo giornale. Trovo assurdo che i
“migliori” insegnanti vengano scelti dal dirigente scolastico
assieme ad altri due professori “eletti”. Vi saranno – e, nel caso
specifico, vi saranno certamente state – situazioni virtuose in cui
il meccanismo può funzionare. Ma ve ne saranno altre – e non poche!
– in cui si formeranno camarille composte da dirigenti di livello
discutibile e da loro “protetti” che premieranno i peggiori, o
quelli che non obbediscono supinamente al dirigente, e che magari
sono i migliori.
È bizzarro che dopo aver propugnato per decenni la “democrazia”
scolastica, in forme di un egualitarismo becero, si passi
direttamente a un modello autoritario basato sul potere assoluto del
dirigente scolastico esente da ogni valutazione e ogni controllo.
Del resto, se i futuri dirigenti scolastici saranno quelli
selezionati sulla base dei criteri demenziali dei quiz del recente
concorso, c’è da immaginare chi verrà premiato: le rotelle
consensuali del grande meccanismo governato dalla dirigenza
ministeriale. Vorrei inoltre osservare che trovo inaccettabile che
un processo di valutazione di un sistema pubblico venga messo
totalmente nelle mani di due organizzazioni imprenditoriali private.
Ancora una volta siamo alla consegna dell’istruzione nelle mani
della tecnocrazia confindustrial-bancaria. Questo discorso si ricollega al precedente. Il nostro è un sistema pubblico a prevalente (quasi totale) componente statale. È assurdo far finta che non sia così e trattarlo come se fosse un sistema integralmente privato. Il che non vuol dire che non sia giunto il momento di spezzare un dirigismo statalista del ministero che è diventato davvero soffocante. Ma si badi che questo dirigismo si riempie la bocca della parola “autonomia”. L’autonomia scolastica che vogliono è quella dell’“autonomia” di un dirigente scolastico onnipotente, il quale è però una rotella del ministero (e questa visione è emersa in modo sfacciato nelle domande del concorsone). Quindi, autonomia del dirigente di reclutare, licenziare, valutare (sotto le ali del ministero). Di certo, nessuna autonomia sul piano delle metodologie didattiche, della libertà di insegnamento: di quella neanche a parlarne. Ma non è soltanto questo il motivo della perplessità nei confronti del reclutamento diretto. Si è parlato molto del fatto che alcune università, in particolare nel sud, sono soggette all’inquinamento della criminalità organizzata, in particolare nel reclutamento. Vi sono stati anche procedimenti giudiziari al riguardo. Eppure le università sono strutture enormemente più vaste di una scuola e con una rete di personale molto più articolata e complessa, con molti più controlli interni. Un istituto scolastico è di gran lunga più fragile e non ci vuole molta fantasia per prevedere che le liste di reclutamento degli istituti scolastici, soprattutto in certe regioni, saranno direttamente gestite dalla criminalità organizzata. Anche il dirigente scolastico non colluso potrà davvero poco contro le pressioni che subirà. Per questo dicevo all’inizio che la proposta del ministro Profumo dei concorsi finisce con l’essere più forte – pur con tutti i suoi evidenti limiti – rispetto alla proposta del reclutamento diretto.
Non credo nelle virtù miracolistiche delle nuove tecnologie, non
credo alla leggenda metropolitana dei “nativi digitali” (gonfiata
dalle ditte informatiche per far quattrini). Sarei ben contento di
sollevare i miei figli del peso dei libri che schianta la loro
schiena a condizione che si affrontassero seriamente non soltanto
tutti i problemi tecnici: compatibilità dei futuri e-book scolastici
con i differenti tablet, semplicità d’uso che non trasformi lo
studio in un perenne traffico da playstation, problemi di
affaticamento della vista, costi, ecc. Ma soprattutto vorrei
garanzie sui contenuti. Già i libri circolanti fanno pena: quattro
righe smozzicate di nozioni seguite da quiz, caselle, domande spesso
demenziali. Come garantire che non si vada sull’ultrademenziale, con
e-book parlanti in cui devi pulsare caselle e salta fuori una
signorina che pigola “sbagliato!” o “bravo!” e via dicendo.
Esagero? Si legga allora il progetto ministeriale di editoria
digitale in cui uno spazio consistente viene dedicato ai videogiochi
“didattici”. Roba di una miseria culturale e di una irresponsabilità
da far accapponare la pelle. Guardiamoci da una tendenza che già è
evidente nel contesto americano, dove mentre l’industria informatica
si lancia a testa bassa sulle scuole pubbliche o comunque di basso
livello, digitalizzando tutto, aumenta il numero delle scuole in cui
il ricorso ai mezzi informatici è proscritto e si studia con libri,
lavagne e gessi. Sono scuole private costose, esclusive e
frequentate dalla crema della classe dirigente, in particolare dai
figli di tutti i dirigenti delle maggiori ditte informatiche!... Il
New York Times ha fatto un ampio servizio su questo. Alti dirigenti
di Apple e Google hanno dichiarato di non essere così scemi da far
apprendere la matematica ai loro figli su un iPad. E così mentre ai
poveracci si propina l’informatica, i figli dell’élite apprendono il
latino, il greco e la matematica in modo tradizionale.
...sono il nuovo proletariato, i futuri addetti alle aziende, quelli
destinati a scopi di basso livello, e che abbisognano soltanto di
una preparazione tecnica, di addestramento, di abilità di base. Ad
altri è riservata l’istruzione di alto livello. E allora imbottiamo
pure le scuole di LIM, di tablet, di videogiochi, di laboratori
“pratici”. Formeremo dei giovani culturalmente primitivi, senza
capacità di darsi una prospettiva di vita, capaci soltanto di
operazioni elementari, di parlare a singulti, “gulp”, “argh” e “sob”.
Il tutto per il benessere dei bilanci delle ditte informatiche – che
affare saranno milioni e milioni di tablet scolastici! – i cui
dirigenti spediranno i figli in scuole ultra tradizionali.
Lo dissi alla vigilia della crisi. Del resto, assistevamo al
ricostituirsi di un classico rapporto tra dirigenza ministeriale e
sindacati che ha sempre condizionato l’opera di qualsiasi ministro.
Ora non saprei quale sia la situazione. Tutto appare più nebuloso.
Un ministro “tecnico” dovrebbe poter agire in modo autonomo. Ma,
come dicevo, non esistono i tecnici puri, e le scelte politiche del
ministro Profumo non sono ancora chiare. Se avviasse immediatamente
i TFA sarebbe già un segnale evidente. Per ora sentiamo parlare di
valutazione, digitalizzazione e altri discorsi molto tecnocratici.
Anche sull’università sembra che suoni questo tipo di campana. Se mi
è permesso, vorrei concludere con una considerazione generale.
Resto fermamente convinto che un sistema dell’istruzione al cui
centro non vi siano più le persone, con la loro spiritualità, la
loro cultura, al cui centro non vi sia più l’incontro tra le persone
del maestro e dell’allievo, e che non sia animato dalla ricerca
della verità, e che sia invece centrato attorno alla “soddisfazione
dei parametri”, ha perso il suo senso. Mi dispiace, ma mi rifiuto –
e sono convinto di essere in buona compagnia, magari perdente, ma in
buona compagnia – di aderire a una visione aziendalista della
scuola. Dedico ai lettori de IlSussidiario.net questa citazione visionaria di un grande pensatore cattolico (non ha importanza dire chi sia) in cui mi sono imbattuto in questi giorni e dalla quale sono rimasto molto colpito: «Se oggi al mondo c’è chi crede all’instaurazione di stati razionali e di economie basate unicamente su numeri e calcoli, indici di produzione e distribuzione, noi crediamo e sappiamo che la nuova spiritualità nascerà soltanto dal messaggio di chi, tagliando nelle viscere più profonde della nostra anima col vomero della irresistibile speranza, ci darà la sensazione vibrante che i simboli stanno per cedere il posto alla Realtà». |