Berlinguer: caro Vittadini, da qui intervista a Luigi Berlinguer il Sussidiario 17.1.2012
Luigi Berlinguer, parlamentare europeo ed ex ministro
dell’Istruzione, interviene a commento
dell’articolo di Giorgio Vittadini pubblicato su
Ilsussidiario.net. «Sono molti i punti che mi trovano d’accordo con
lui: Un giovane non è una lavagna, ma una miniera. Ed è per questo
che rifiuto nettamente la scuola come viene fatta oggi in Italia».
L’approccio funzionalistico è l’esatto opposto di quello che io ho
sempre sostenuto. Vittadini dice che la mia riforma sarebbe stata
influenzata da Eco. Ma dove ha avuto queste informazioni? Di
ermeneuti del mio pensiero ce ne sono tanti, questo mi lusinga, ma
non è questo il punto. Ragioniamo. Dico subito che ci sono molti
punti illustrati da Vittadini che mi trovano d’accordo con lui. Ho
sempre tentato di elaborare una visione dinamica dell’azione
educativa, fissando però dei punti fermi. E uno di questi è il
primato della persona. Essa implica che l’educazione ha una
pluralità di valenze che va rispettata e che non si può
arbitrariamente ridurre...
Sono per tradizione e convinzione affezionato all’idea che
l’educazione della persona non solo «serve» la civiltà, ha nella
persona stessa il suo fine. E già questo è la negazione del
funzionalismo! Per realizzare tutto ciò, occorre che
nell’apprendimento colui che impara abbia un bagaglio culturale
maggiore di quello che è strettamente considerato necessario. ci dev’essere
un «di più». Ci dev’essere, nel piatto, un fiore, che «contamini»,
arricchendolo, l’intero piatto. occorre costantemente espandere il
proprio livello di sapere e di competenza insieme: è una tensione
continua, mai sopita. Ma nel sapere c’è anche una ragione pratica e
guai a dimenticarla.
Certo. I ragazzi vanno a scuola e tentano di avere un diploma anche
perché vogliono lavorare. Non disprezziamo, per favore, il bisogno
sociale oltre che economico della persona. Questo aspetto se
vogliamo chiamiamolo funzionale, ma c’è e guai a dimenticarlo. Ma in
tutto questo c’è anche un’idea più profonda che non ho mai smesso di
difendere: la tesi della contaminazione sociale del sapere. La
conoscenza, per arricchirsi costantemente, deve fare i conti col
reale. Quando questo avviene, l’educazione «arma» chi è dentro un
processo di apprendimento preparandolo per fare i conti con la vita.
È un qualunque «fiore», che può essere fatto di poesia, di arte, di
curiosità intellettuali, di ricerche persino ingegneristiche. Ma è
qualcosa che non è direttamente funzionale all’indirizzo che la
persona ha preso.
Nel senso tecnico del termine, esse sono tradizionalmente le lettere
contrapposte alle scienze. Ma queste partizioni non mi piacciono.
Cosa c’è di più umanistico dell’approfondimento teorico di un
biologo, che deve scoprire la vita? Cosa c’è di più squisitamente
umanistico della matematica, altissima forma di astrazione? Sento a
me più vicino l’umanesimo di Leonardo, che si definiva «omo sanza
lettere» (latine e greche, ndr).
Qui viene un aspetto fondamentale della concezione che io sposo, e
che trovo contenuta in forma indiretta nella conferenza di Vittadini:
la necessità – semplificando – di incentrare il sistema educativo
sull’apprendimento. Educare non è impartire una somma di nozioni –
che ci vogliono! –, perché se si limita a questo torniamo alla
scuola italiana che sta in prevalenza sotto i nostri occhi e che io
rifiuto nettamente. Un giovane non è una lavagna, ma una miniera.
Insegnare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco, e il
combustibile non se lo produce il ragazzo o la ragazza; lo deve
accendere il docente. È questo il suo compito.
Sono d’accordo con lui su questo e su altre cose. Io sono perché si
proceda per problemi, e non per trasmissione di pacchetti
epistemologici costruiti per definire una disciplina. Questo nulla
toglie a che un giovane si arricchisca di conoscenze e di nozioni
anche nell’ottica della risposta a problemi intrinseci ad una
materia. Ma Vittadini dice un’altra cosa importantissima, che
sottoscrivo: che la scuola deve attrarre il desiderio. Se non
ricordo male, è un concetto che ho sentito più volte nelle parole di
Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’apprendimento è desiderio,
perché l’essere umano nasce con la brama di capire. Il sapere serve
a capire; altrimenti, la scuola premierebbe l’astuzia.
Il conoscere è libertà, ma deve incontrare godimento. I ragazzi sono
svogliati perché questo tipo di scuola non li fa godere più. Sia
chiaro, non sto predicando la fine della fatica, tutt’altro. Essa
non può mancare: lei conosce qualcosa che le piace e che non le
costi? Guai a cose che non costano fatica. Ma nell’apprendimento c’è
qualcosa, che Vittadini chiama «desiderio» e che io chiamo eros
secondo l’etimo greco: dedicare se stesso all’oggetto nelle proprie
pulsioni più forti della vita. Questo non c’è più! La scuola
dovrebbe suscitare questa passione, invece quella che abbiamo noi è
il contrario, è nient’altro che una serie di precetti e di nozioni.
In un recente articolo Vincenzo Silvano ha detto una cosa
giusta: la liberalizzazione in materia scolastica è l’autonomia, non
la privatizzazione. Io a suo tempo le diedi le gambe per camminare,
ma l’ostilità di una parte del corpo docente, insieme a quella del
corpo burocratico del ministero, senza dimenticare l’ostilità della
classe politica – che naturalmente la difendeva a parole – l’ha resa
asfittica. Le dichiarazioni del ministro Profumo mi sembrano però
incoraggianti.
In alcuni paesi evoluti già lo si fa, ma io sarei molto cauto,
perché conoscendo il mio Paese vedo un grave rischio: che nel nostro
sud, ma non solo, assisteremmo ad una pesante caduta di qualità
dovuta al pervadente nepotismo. Quell’autonomia morirebbe di
clientelismo. Nondimeno occorre cambiare, ma bisogna farlo nel
tempo, procedendo a piccoli passi.
Penso innanzitutto all’organico funzionale. Profumo del resto ne ha
parlato. Senza un uso intelligente di questo «surplus»di dotazione
organica, l’autonomia non funziona. Il corso degli studi della
secondaria superiore ammette la bellezza di 72 opzioni, pacchetti
che sono affidati in parte alla scelta dei docenti, in parte a
quella degli stessi studenti. Ma se non si ha un minimo di organico
da impiegare a questo scopo, sono tutte parole. Invece bisognerebbe
andare proprio in questa direzione: una scuola moderna non può non
avere opzioni. Se uno studente sceglie certi approfondimenti, deve
poterne evitare altri. Aggiungerei infine la possibilità per una
scuola di ficcare il naso nelle graduatorie, ispirandosi al proprio
indirizzo educativo. Questo sia per le scuole statali che per quelle
paritarie. Si potrebbe – anzi – ipotizzare un primo passo nel
reclutamento da parte delle scuole proprio cominciando dalla docenza
funzionale.
Per cambiare la scuola occorre il concorso di tutte le istituzioni
scolastiche del Paese. «Competizione» è una parola che mi fa paura:
preferirei parlare di emulazione tra chi fa meglio l’attività
educativa. Fra reti di scuole, per esempio. Sono importanti perché
un istituto, da solo, non riuscirà in futuro a fare alcunché di
grande. E non capisco perché quando si parla di reti di scuole, si
dia per scontato che esse debbano essere solo statali o solo
paritarie. No, le reti devono essere innanzitutto funzionali al
progetto educativo e al territorio. |