SCUOLA

Cari prof, se volete parlare della realtà
imparate dal tappeto di Calvino

Silvano Tagliagambe il Sussidiario 27.2.2012

Tra le città che Calvino descrive ne Le città invisibili c’è Eudossia, dove si conserva un tappeto “in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto […]. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andirivieni dal brulichio dal pigia pigia”. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l’odore del pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio”.

Il tappeto non descrive Eudossia, ma permette di comprenderla, aiuta a non smarrirsi nei suoi meandri e nella sua sovrabbondanza di significati: “Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d’arrivo”. L’analogia di cui si parla tra tappeto e città non è, ovviamente, una somiglianza (il tappeto non vuole riprodurre la forma della città e rappresentarla), ma un isomorfismo strutturale che è basato su un senso che è necessariamente e unicamente di posizione: il filo cremisi o indaco o amaranto non hanno né una designazione estrinseca, né una significazione intrinseca, legata alla scelta del colore o a qualsivoglia altra caratteristica.

Ciò che importa, invece, è la corrispondenza tra la posizione del filo medesimo e quella della via o sentiero a cui rimanda e, soprattutto, tra la relazione reciproca tra i fili, da una parte, e quella tra le strade che si cercano, dall’altra. Il tappeto, da questo punto di vista, è una combinatoria costituita da elementi puramente formali, è un affresco che ha significato topologico e relazionale. Ma non è solo questo l’aspetto importante segnalato da Calvino, bensì anche e soprattutto il fatto che per chi si sia perso a Eudossia e non sappia ritrovare la via smarrita, la città parla attraverso il tappeto, nel senso che è in quest’ultimo che bisogna cercare la risposta al proprio problema.

La città non dice alcunché, se interrogata direttamente: per darle voce occorre passare attraverso la mediazione di una rappresentazione semplificata (il tappeto, appunto), in cui il problema da affrontare venga trasferito per essere analizzato più convenientemente e risolto. Questa rappresentazione non esprime necessariamente l’intima e reale essenza del problema (la città è così complessa da non lasciarsi rappresentare in modo esaustivo con i fili e colori del tappeto), ma deve fornirne una sintesi utile, aiutare a vederne e a capirne la natura intrinseca, a determinare quali caratteristiche sono rilevanti e pertinenti e quali non lo sono ai fini del problema medesimo.

Un corretto rapporto tra Eudossia e il suo tappeto può essere costruito solo se si ricorda che quest’ultimo non è la vera sostanza “divina” della città, ma più semplicemente un suo modello, e che il modello, ogni modello, è un’analogia tra un fenomeno qualunque X (nel nostro caso la città) e un oggetto costruito M (il tappeto) che permette di rispondere a un qualche quesito Q, posto a riguardo alla realtà di partenza. Le legittimità del modello è legata al rispetto delle seguenti condizioni:

1) che M (il tappeto) abbia una sua coerenza interna;

2) che la costruzione di M sia determinata dall’esigenza di trovare una risposta al problema P concernente X (la città);

3) che questo problema sia traducibile in un problema P’, concernente M, il che significa possibilità di tenere costantemente sotto controllo l’analogia X-M tra Eudossia e il suo tappeto. È questa la condizione a cui fa riferimento Calvino quando dice che chi si perde nella prima può e deve trovare la strada che cercava e il suo punto d’arrivo all’interno del secondo;

4) che la soluzione S’ trovata grazie al modello al problema P’ possa, a sua volta, venire tradotta nella soluzione S al problema di partenza P, il che significa che il tappeto aiuta chi vi ricorre a inquadrare correttamente e a risolvere i problemi di orientamento che riguardano la città. È pertanto necessario che chi si serve del tappeto non dimentichi che deve vivere nella città, e non nel tappeto medesimo, per cui le soluzioni trovate vanno trasferite in Eudossia previa una qualche forma di verifica sperimentale (giustificazione a posteriori mediante il meccanismo della corroborazione/falsificazione);

5) che il carattere esplicativo del modello, che si esprime proprio in questa sua capacità di trovare la soluzione cercata, si manifesti anche sotto forma di produzione di un livello più alto e astratto di “visualizzazione”, nel senso che esso, facendo intervenire processi tra entità invisibili (la sostituzione al visibile complicato di una struttura o un meccanismo più semplice, non osservabile a livello di evidenza fenomenologica, che generalmente caratterizza la costruzione di M) permetta di ricostruire, a uno stadio più elevato, la morfologia visibile.

Se ci serviamo di queste considerazioni per affrontare la questione cruciale del rapporto tra l’aula e ciò che sta fuori di essa ne possiamo ricavare alcune indicazioni non prive d’interesse e di pertinenza. Anche se la scuola (a differenza del tappeto) non è stata progettata e realizzata per riprodurre analogicamente il contesto sociale in cui opera ed è vita ed esperienza essa stessa, per cui non può – e non deve – “replicare” la vita, ci deve comunque essere un nesso e una relazione non generici, ma da tenere sotto controllo, tra ciò che si impara e di cui si fa esperienza all’interno della sue mura e le questioni e i problemi da affrontare all’esterno. Altrimenti il rischio che si corre è quello di vivere, certo, ma nel modello e di ridursi a valutare se quest’ultimo funziona o non funziona, se è efficace o no, sulla base delle sue sole “smagliature” interne, e non anche in riferimento a ciò a cui deve preparare, alle finalità per cui è stato realizzato, con un’evidente fuga di responsabilità rispetto a questi obiettivi imprescindibili.

In tutte le questioni che riguardano non solo l’impresa scientifica, ma l’esperienza umana nel suo complesso il ricorso all’analogia è uno stimolo potentissimo per la ricerca di soluzioni efficaci. Certo, è uno strumento da maneggiare con cura e con cautela e da controllare con attenzione nei suoi esiti, in quanto è a volte all’origine di passi falsi e di pseudo spiegazioni, tuttavia rimane il mezzo più potente di cui disponiamo per mettere in relazione ambiti, contesti e campi problematici diversi. La relazione tra l’ambiente esterno nella sua complessità e la vita scolastica deve essere oggetto di una “modellizzazione qualitativa”, ovviamente ben differenziata da quelle che mirano a predizioni strettamente quantitative, ma ciò non significa che essa non sia passibile di controlli. Escogitare controlli per modelli del genere può invece essere addirittura più semplice, in quanto essi, come precisa René Thom, rinunziano all’ideale, che egli giudica “irragionevole”, di una determinazione precisa di tutti i parametri in gioco in favore della descrizione della “funzione” di ciascun elemento di un sistema, dando luogo così a una sorta di “ermeneutica” nel contesto della modellizzazione.

Vivere pienamente la scuola e nella scuola, ma insegnando (e imparando) a trasferire fuori di essa ciò che si è appreso lì, sulla base di un modello in cui, rispetto alla misura, si riconosce l’incidenza primaria dei quadri e dei nuclei concettuali. Sbaglierò, ma mi sembra essere questo il senso profondo della sfida che deve quotidianamente affrontare chi frequenta, con funzioni e ruoli diversi, le aule scolastiche. Se si nega questo presupposto il motto dell’Émile di Rousseau “Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare”, richiamato a volte in modo perfino ossessivo, resta una vuota formula rituale. Quasi un esorcismo per scacciare i fantasmi e i demoni da cui la scuola è tormentata.