Risé: quei bambini senza "padre" intervista di Federico Ferraù a Claudio Risé il Sussidiario 1.2.2012
Cosa c’entra la manovra del governo
Monti con l’irresponsabilità diffusa dei «bambinoni» che escono
dalle nostre scuole? Per Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore,
un legame c’è, e affonda le sue radici nelle travagliate
vicissitudini dell’Autorità. «Se non c’è più un maestro inteso come
formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si sviluppa». E
finisce per essere solamente un servitore fedele dell’Apparato. Risé
interviene nel dibattito sull’autorità aperto da Ilsussidiario.net.
Autorità è un termine molto ampio e
credo che valga la pena di distinguere almeno tra due aspetti
diversi. Il primo è il bisogno del soggetto umano che chiede
un’autorità come fonte di sapere, di accoglimento, di identità, in
ultima analisi di crescita della propria personalità, del proprio
sé. Come ricorda Luigi Giussani, autorità viene da augeo ovvero
«aumento, faccio crescere, alimento». Il valore di questa autorità è
comunemente negato dalla società attuale, questo è vero. Ma al tempo
stesso, e molto insidiosamente, assistiamo ad una ipertrofia della
seconda valenza dell’autorità, intesa come fatto di potere
burocratico-organizzativo.
Nelle società occidentali
contemporanee, soprattutto in quelle europee, vengono create ogni
giorno decine di nuove norme giuridiche che orientano in modo
dettagliato la nostra condotta. Questo è un fenomeno di evidente e
crescente autoritarismo. Non ne è immune, per restare a noi, nemmeno
la manovra economica varata da questo governo. Vi sono contenuti
degli aspetti «autoritari», dal controllo del denaro ai profili
economici delle persone, certamente fuori del comune. Si
«liberalizzano» imprese economiche modeste, come i tassisti o gli
autotrasportatori, ma non si tocca un monopolio pressoché
onnipotente nei trasporti come le Ferrovie Italiane...
Sì. Se il soggetto non viene più
educato – e perché questo avvenga ci vuole quell’autorità formatrice
di cui parlavo prima –, viene consegnato alla polizia, alla norma
autoritaria, che si riproduce all’infinito come metastasi. L’intera
esperienza del Novecento, da questo punto di vista, chiarisce questa
trasformazione: alla crisi degli imperi centrali che ponevano Dio
come riferimento ultimo dell’ordine politico e dell’Autorità,
succedono le rivoluzioni fasciste in Italia e in Germania, e
l’avvento dei totalitarismi nazista e comunista. La secolarizzazione
avviata dalle rivoluzioni del Settecento si compie attraverso
l’intensificazione dei controlli burocratici e polizieschi.
All’autorità su di sé, costruita nel rapporto educativo con l’altro,
succede la diseducazione dell’individuo, che diventa quindi schiavo
del funzionario.
No, si tratta di una crisi culturale
collettiva che si ripercuote all’interno della persona annichilendo
la sua soggettività e distruggendo la sua libertà. Se l’uomo non può
più riconoscersi come soggetto – e quindi, innanzitutto, anche come
soggetto di autorità su di sé, appresa nel rapporto educativo –
diviene schiavo.
A mio avviso va messo piuttosto in
relazione con la demolizione dell’autorità paterna. Precisando che
questa autorità paterna non è tanto il padre biologico o spirituale,
ma Dio stesso, il Padre. In tal senso, la crisi di cui parliamo è
l’esito ultimo della secolarizzazione. Mi limito a notare che le
società anglosassoni, che per altri versi sono fortemente
individualiste, non hanno vissuto la stessa deriva continentale
europea.
La società americana è una società
molto più religiosa e meno secolarizzata della nostra: il
riferimento a Dio è costante, anche nella vita politica e nel
dibattito pubblico. La società inglese è forse meno religiosa, ma è
sicuramente liberale e in essa il senso della libertà individuale è
fortissimo. L’autorità – anche da parte del cittadino su se stesso e
dunque come autolimitazione – è costantemente rivendicata e protetta
dalle norme; e la stesa attività legislativa è molto più contenuta
che nel resto d’Europa. I totalitarismi moderni sono un’invenzione
(e forse ancora oggi una tentazione) del continente europeo.
Il maestro è una figura dell’anima, è
qualcuno cui tu, allievo, riconosci la capacità di insegnarti
qualcosa che hai bisogno di apprendere per vivere come soggetto, e
non come schiavo. Il docente invece è una figura burocratica, una
qualifica. Non è detto che un docente sia anche maestro, come non è
detto che un maestro sia iscritto in qualche registro di docenti.
Questa distinzione mi lascia
diffidente. Facendola nostra, seguiremmo un percorso proprio della
cultura contemporanea secolarizzata, per la quale l’autorità è
qualcosa di cattivo in sé: i suoi aspetti buoni sono
l’autorevolezza, mentre i suoi aspetti cattivi convergono sul polo
dell’autorità. Io credo che il maestro, il padre, per certi versi
anche il capo in quanto persona riconosciuta come dotata di capacità
formative ed educative, siano delle figure d’autorità nel senso
positivo del termine, in quanto indispensabili a rafforzare
l’autorità del soggetto su se stesso, dunque la sua libertà. È la
proliferazione delle norme la spia del fenomeno autoritario nella
sua accezione negativa moderna: il modello funzionariale. In base al
quale non ha valore chi tu sia, ma come «funzioni». Quella
burocratizzazione del mondo che Max Weber, già nei primi anni del
secolo scorso, aveva indicato come il grande pericolo del Novecento
e che continua, rafforzato, anche oggi.
Il più evidente è l’indebolimento del
soggetto (tendente al suo annichilimento). Se non c’è più un maestro
inteso come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si
sviluppa. Da cui questa scuola più o meno «pediatrica», che sforna
persone per nulla adulte, pronte ad essere diligenti osservatori
delle norme che il potere continua a somministrare; oppure, in modo
speculare, trasgressori folli di queste stesse norme. Vengono meno
soggetti liberi capaci di sviluppo, amore, devozione per la vita.
Cercare di essere maestro: riconoscere
nell’allievo le sue potenzialità ed impegnarsi ad alimentarle alla
luce di una personale visione dell’uomo e della vita, di cui il
maestro deve assumersi la responsabilità. In secondo luogo, un
maestro deve poter essere libero di creare scuole. In fondo, la
scuola di Stato è un’invenzione anch’essa molto europea, imposta
ovunque – e non è un caso – dopo la rivoluzione francese. Spero che
si vada presto verso l’estinzione di ogni forma di autoritarismo
statale, anche educativo, a vantaggio di scuole nate dalla passione
di chi si sente portatore di potenzialità formatrici, sul cui valore
verrà vagliato dalle persone, e non dai burocrati di Stato. Molto. Non solo per viltà e per pigrizia, ma perché essere maestri vuol dire umiliare continuamente se stessi, riconoscersi mendicanti di sapere, cercare, imparare a ri/conoscere; mettersi in ascolto del magister interiore. Il Padre, che ci cerca, e senza stancarsi parla dentro di noi. |