Le "sberle" di Platone e Virgilio Elisabetta Cassani il Sussidiario 22.2.2012 Il recente articolo di Maria Pia Biroccesi solleva questioni di primaria importanza per ogni classicista che sia impegnato nella didattica. Gli studenti con i quali lavoro (insegno latino e greco) spesso (e giustamente!) si pongono la domanda sull’utilità di un esercizio oggettivamente molto impegnativo qual è quello della traduzione. Questa impresa infatti richiede conoscenze sicure nelle due lingue (quella di partenza – il latino o il greco, e quella di arrivo – l’italiano), richiede la pazienza (quindi il tempo) di applicazione di un metodo e richiede anche la disponibilità al rischio di affrontare l’ignoto (non sai in anticipo che cosa ti sta per dire il passo che hai di fronte). Dire che il nostro mondo vuole “tutto e subito” non è certo un’osservazione originale (ma è solo un atteggiamento del nostro secolo? è una tendenza, presente in tutti i tempi, cui la ragione può mettere correttivi?): certo è che il “tutto e subito” si scontra con il lavoro di pazienza dell’esercizio traduttivo dal latino e dal greco, e molto spesso lo rifiuta. Per quanto mi riguarda, trovo che proprio il fatto che la domanda sul significato di questa attività riemerga continuamente, negli studenti ma anche in me, sia segno che ci troviamo di fronte a qualcosa di interessante. Infatti un’esperienza educa nel momento in cui una persona la fa propria: in questo senso la domanda sul valore dello studio delle lingue classiche e conseguentemente sul valore dell’esercizio traduttivo rimane aperta, perché ciascuno deve trovare e far sua la risposta: non una volta per tutte, ma ogni volta di fronte alla situazione (in genere, di difficoltà...) in cui un testo chiede di essere decodificato e risignificato. D’altra parte, istituzionalmente (nei programmi del liceo classico rimane lo studio delle lingue classiche e il “voto nello scritto”) è sostenuto il valore formativo di questa prassi tradizionale: dunque la risposta alla domanda sul senso di tale esercizio non può essere solo affidata all’intuizione del singolo, ma deve proporsi anche in sede istituzionale. Tradurre un passo d’autore, anche solo di 10-12 righe, chiede tempo e fatica: lo studente di fronte a un testo deve applicare, in un contesto nuovo, delle conoscenze precedentemente acquisite, usando (o creando) dei modelli di metodo. È evidente a chiunque vi rifletta anche solo un attimo il formidabile potenziale di questo esercizio. Lo scoglio contro cui di solito però si frantuma l’entusiasmo è duplice: da una parte le conoscenze precedentemente acquisite son spesso incerte, dall’altra anche nel momento della traduzione occorre l’impegno che faccia fronte alle difficoltà inaspettate. Per altro lo studente si accontenta in genere di capire più o meno il significato del passo proposto e di ripresentarlo in un italiano quanto meno ardito e sicuramente non usuale (non è la lingua che usa quando parla né che usa quando scrive un tema), a meno che non cerchi una traduzione già pubblicata (tutti i classici sono facilmente reperibili in italiano, stampati ma anche on-line), interrogandosi ulteriormente sull’utilità di una produzione maldestra a fronte di eccellenti e comode offerte alternative. L’osservazione di tutto ciò rende scettici spesso non solo gli studenti, ma anche gli insegnanti stessi, come osserva Maria Pia Biroccesi che espone molto chiaramente la situazione. E tuttavia il momento traduttivo è l’esperienza di un incontro con un altro da me che, se ha scritto, riteneva di avere qualcosa da comunicare e, se è stato trascritto nel corso dei secoli da ignoti copisti, si è imbattuto in qualcuno che ha ritenuto importante ciò che egli intendeva comunicare. Occorre però la pazienza e l’umiltà di non saltare passaggi, di non cercare scorciatoie ma di mettersi in ascolto, consapevoli che il testo abbia qualcosa da dire. Spesso nella prassi invece lo scritto è lo scotto da pagare, insieme allo studio di regole linguistiche e paradigmi, per conoscere il pensiero degli autori classici. Senza riflettere adeguatamente sul fatto che non si dà pensiero senza lingua e che se il pensiero modella la lingua, anche la lingua modella il pensiero. Un mondo dove il “tutto e subito” è imperante, dove “meno faticoso” significa “migliore” non può apprezzare questo lavoro di pazienza e di ascolto: ma senza allenarsi all’ascolto non se ne può raggiungere la capacità, e senza capacità di ascolto la realtà sembra muta, così da perdere lo spessore che la fa invece interessante. |