Infreddatura? No, raffreddore Lingua italiana nel 150° dell’unità Stefano Borgarelli, 11.2.2012 Molti ne ricorderanno l’accento piemontese, quando valutava gli scritti dei concorrenti di “Parola mia”, trasmissione a quiz in cui Gian Luigi Beccaria, docente di lingua italiana all’Università di Torino, era inappellabile arbitro. Scevra di accademismi, la stessa disposizione pedagogica torna nell’aureo volumetto Mia lingua italiana (pp. 87, €. 10), uscito da una lezione agli studenti dei Licei – “con supplemento di note e qualche aggiunta” – per le Vele einaudiane nel 2011. Solo in apparenza celebrativo, il sottotitolo Per i 150 anni dell’unità nazionale risulta tutt’altro che esteriore all’intreccio tra fatti storici e linguistici. La tesi di Beccaria è che l’unificazione italiana non sarebbe stata possibile senza un’identità nazionale formatasi in virtù d’uno spazio linguistico comune, a sua volta disegnato largamente dalla letteratura: “Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione.” (p. 4). Non si tratta di contenuti ideologici, bensì di letteratura intesa sub specie linguistica: “[…] la prima diffusione della lingua nella penisola è dovuta per molta parte alla Commedia di Dante, al Canzoniere del Petrarca, al Decameron del Boccaccio, che furono presi a modello di lingua […] e sminuzzati più tardi anche in parole da proporre per norma” (p. 21). Egemone nella lingua letteraria, il toscano (fiorentino) s’infrange tuttavia sugli scogli del dialetto, vera lingua madre degli italiani, tanto che usarlo ovunque è fuori luogo, in ogni senso. L’annota Stendhal, viaggiatore in Italia: “[…] ci si serve sempre dell’antico dialetto locale e parlare toscano nella conversazione risulta ridicolo” (cit. a p. 61). A riprova, Leopardi lamentava la mancanza d’una lingua media per la conversazione, fatto che provoca “odio e disunione, […] infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini” (cit. a p. 50). Dopo i fermenti illuministici, quando il dibattito sulla lingua imbocca “vie nuove, […] inestricabilmente politiche e sociali” (p. 69), restano separate la lingua della prosa e quella poetica. Quest’ultima schifa, per tutto l’800, parole concrete e realistiche. Il maestro di retorica suggeriva a Manzoni brando per spada, estolle per innalza, liquor di Bacco per vino (cfr. p. 52). Benché il lavoro di lima tra il Fermo e i Promessi ottenesse un suo scopo, “perché Manzoni intendeva raggiungere […] una lingua […] più accettabile da una comunità nazionale” (p. 31), la sua idea di fare del toscano un idioma comune risultò illusoria. Più lucido l’Ascoli del Proemio all’ «Archivio glottologico italiano», che vedeva l’italiano a venire come il frutto d’un “sedimento”, mentre non si doveva “scimmieggiare una conversazione municipale” (cit. a p. 28). Attestati nell’uso corrente, molti geosinonimi non toscani gli danno ragione, “vedi il caso di infreddatura/raffreddore, gattoni/orecchioni, il tocco/l’una, bizze/capricci, levarsi/alzarsi, cencio/straccio, granata/scopa, balocchi/giocattoli ecc.” (p. 32). Al momento dell’Unità, gli italiani che non sanno l’italiano sono tra il 75 e l’80%. Nei vocabolari dialettali del secondo ‘800, italianizzare “allude a un’affettazione di modi italiani percepita come innaturale” (p. 62). Quando prende possesso del Quirinale, Vittorio Emanuele II pare abbia detto: “Aj suma” (“Ci siamo”, v. p. 63). Poco prima della tv, nel 1951, il 65% è ancora esclusivamente dialettofono. Da dieci anni in qua, la cifra è scesa dall’11,3 al 6 %. Ce l’abbiamo fatta. L’italiano non è più una lingua “con la penna” (Ascoli), una lingua “in gabbia” (Meneghello). Voler dare ai dialetti (come certe forze politiche pretendono), il medesimo statuto di questa lingua ufficiale della nazione, così faticosamente raggiunta, sarebbe un errore. Non perché i dialetti non abbiano anch’essi struttura di lingua, ma perché “diciamo lingua quel dialetto che a un certo punto per motivi culturali, economici, sociali, si è imposto sugli altri. Anche l’italiano era un dialetto, era il fiorentino” (p. 76). Il fondamento storico-linguistico del ragionamento di Beccaria mette capo a una conclusione politica: “[…] dopo averne detto il maggior bene possibile, ribadisco che non mi sento di lodare chi propone di insegnare il dialetto a scuola”. |