MAPPE La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni Ilvo Diamanti la Repubblica, 13.2.2012 NON È CHIARO cosa sia successo ai giovani. Divenuti, all'improvviso, impopolari. Bersaglio di battute acide e ironiche. Da quando, nel 2007, Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Prodi, invitò le famiglie a mandarli fuori di casa. I "bamboccioni". Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l'autonomia. I giovani. Fino a ieri simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell'economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta. Sulla scia di Padoa-Schioppa, nelle ultime settimane, altri "professori" e altri "tecnici di governo" li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito "sfigati" gli studenti - o sedicenti tali - che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l'altro, è "monotono". E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono "il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà". Così i giovani hanno smesso di rappresentare il "futuro" e sono divenuti simbolo della resistenza al cambiamento e alla modernizzazione. Al pari di altre categorie. I tassisti e i notai. I pensionati e le pensioni. I sindacati e il famigerato articolo 18. I "politici". I giovani: sono invecchiati in fretta, nella rappresentazione pubblica. Un freno alla modernizzazione. Nel discorso tecnocratico. Ma anche nella retorica mediale, trainata dai talk show e dall'infotainment. Le loro proteste, nelle scuole e nelle piazze, per questo, vengono etichettate come battaglie di retroguardia. I giovani: gli irriducibili del posto fisso. Eredi del sistema di garanzie ottenute negli anni Settanta. Divenute, oggi, vincoli. Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. I giovani. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte "accuse" nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.
I giovani devono
scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei
giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro (Demos-Coop, maggio
2011. Un dato analogo a quello proposto da Mannheimer ieri sul
Corriere). Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri
requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65%
dei giovani occupati (Demos-Coop, maggio 2011) considera il proprio
lavoro "precario" oppure "temporaneo". E il 60% pensa che, fra
uno-due anni, avrà cambiato lavoro. Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai "Neet" (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là. Difficile considerarli "partigiani del posto fisso". Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l'indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda. Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D'altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall'Italia (Demos-Coop, maggio 2011). Una convinzione che cresce particolarmente fra i più giovani. Alcuni anni fa (Demos 2004), oltre quattro giovani su dieci, residenti nel Mezzogiorno, si dicevano pronti a trasferirsi nel Nord o all'estero, pur di trovare lavoro. Difficile trattare da "bamboccioni" i giovani italiani. Che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro "temporaneo". Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio. Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese "immobiliare" come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari. Per questo non è chiaro perché a "liberare" l'Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli "sfigati".
Come se la società e il
mercato del lavoro fossero davvero "aperti", regolati dal merito.
Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che,
secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono,
soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie (Demos per Unipolis,
gennaio 2012). D'altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè,
i "datori" di lavoro (Demos per Confindustria, gennaio 2010). I
quali, per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le
"classi dirigenti", d'altronde: professori universitari,
giornalisti, politici, liberi professionisti....). Questi giovani "sfigati". Senza pensione. Per molto tempo, per sempre, faranno un lavoro atipico e precario. Sicuramente non "monotono". E, per pagare il debito pubblico accumulato da decenni, dovranno sopportare grandi sacrifici. Per molto tempo ancora. Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni. Della generazione di Monti, Fornero e Cancellieri. Della "mia" generazione. Forse è per questo che ce la prendiamo tanto con i giovani. Per dimenticare e far dimenticare che è colpa nostra. |