L’Italia unita, divisa dalla scuola

Gian Antonio Stella Il Corriere della Sera, 12.2.2012

«Ai figli regalategli un lager», fu il titolo di Foglio a un articolo scritto da Amy Chua su The Wall Street Journal per spiegare perche lei e le altre mamme cinesi sono certe che si debba che «si debba essere durissimi con i pargoli, “per imparare bisogna soffrire”». Spiegava la signora che «quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte più facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili». C’è chi dirà che è una follia: tirato su a bacchettate quel figlio sarà poi sereno, equilibrato, creativo? La discussione è aperta. Ma un punto appare sicuro: i genitori orientali sembrano più decisi di noi a incidere sull’educazione dei figli nel quotidiano affiancamento alla scuola.

Lo confermano un paio di dati presi da L’Italia che va a scuola (Laterza), un libro in cui Salvo Intravaia, professore di un liceo palermitano e collaboratore di Repubblica, fotografa un mondo che tocca un italiano su quattro che «ogni mattina si alza per recarsi a scuola: gli alunni per studiare, i genitori per accompagnare i figli, e il personale – docente e non docente – per lavorare». Scrive dunque l’autore che di anno in anno, a partire dal ’90, le elezioni per i consigli di classe vedono l’affluenza calare, calare, calare. Fino a scendere in certi casi, come per le “superiori”, in Sardegna, sotto il 4 per cento. Certo, il distacco non può avere come unica unità di misura la sfiducia in un organismo che evidentemente ha deluso. Ma anche questa è una conferma di una cosa che maestri e professori assaggiano tutti i giorno: i genitori italiani, pronti a scatenare l’iradiddio se i figlioli portano a casa un brutto voto, sono generalmente distratti.

Se non lo fossero potrebbero mai accettare certe storture denunciate da Intravaia? Manderebbero sereni i figli a scuola sapendo che il 92 per cento (dato Cittadinanzattiva) o il 93 (dato Legambiente) delle scuole costruite prima del 1990, tre su quattro, necessiterebbero d’urgenti interventi? Accetterebbero i tagli sapendo che l’Italia spende per l’istruzione il 6,7 per cento del Pil contro il 7,9 della Finlandia, l’8,7 del Regno Unito, l’8,9 della Danimarca, il 10,3 dell’Irlanda?

Vale, soprattutto, per i genitori del sud, che alla faccia dello stereotipo sui mammoni, sono i più assenti: come possono accettare certi squilibri? Complessivamente «tra le diverse regioni italiane si presentano grosse differenze. Al Nord la spesa media per alunno nel 2009 e stata pari a 1.461 euro. Una cifra leggermente più bassa, 1.387 euro ad alunno, si spende nelle quattro regioni centrali. Ma quando si passa a quelle meridionali (…) l’investimento precipita a 716 euro per alunno». È accettabile, 150 anni dopo l’Unità?