UNA BRUTTA FIGURA
Il decreto semplificazione
e sviluppo in Gazzetta Ufficiale

di Rosario Drago dall'ADi, 10.2.2012

L’istruzione nel decreto semplificazione e sviluppo

Il decreto legge 9 febbraio n. 5 Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo, è stato pubblicato, nella versione riveduta e corretta, in Gazzetta Ufficiale . Il testo passa ora alle Commissioni parlamentari per l’esame e la successiva conversione in legge, entro 60 giorni.

Non c’è da stupirsi che il Governo, dopo il primo annuncio, abbia dovuto riunirsi una seconda volta per esaminare, quasi esclusivamente, l’articolo relativo alla scuola. È evidente che l’esame del Ministero dell’economia è stato così accurato e severo da doverlo riscrivere in toto, ad eccezione della parte relativa all’edilizia scolastica.

Dalla lettura in controluce delle due versioni del decreto, si comprende che l’intervento dell’Economia ha stravolto il testo tanto da renderlo quasi irrilevante. Così, ancora una volta non ha pagato la tattica di quei funzionari che sono abituati a chiedere 100 per ottenere 10; una tattica che ha portato negli ultimi anni il nostro ministero a Centro di spesa commissariato, ovvero sotto stretta tutela del MEF.

Prima i nostri amministratori si renderanno conto di questa condizione, meglio sarà per i conti pubblici ed anche per la scuola.

E sarà meglio anche per il Ministro, al quale saranno risparmiate altre brutte figure di fronte ai colleghi.

 

I “Furbetti del Ministero”

Attuazione dell’autonomiaart. 50 ( 1° versione artt. 54, 56, 59)

I tre articoli e 16 commi della prima versione, che portavano il titolo suggestivo di “Autonomia responsabile”, sono stati ridotti ad uno solo (3 commi) e trascritti da cima a fondo:

  • niente organico funzionale, ma “organico dell’autonomia – virgola –, funzionale all’ordinaria attività didattica….” idem come oggi. E’ significativa la scomparsa di ogni riferimento all’organico attuale (nella prima versione: “L’organico è determinato in misura uguale all’anno scolastico 2011/12”) come base stabile di riferimento, al fine di evitare altri soprannumerari e la riduzione dei posti assegnati ai supplenti, una specie di blocco dei “tagli”;

  • niente bonus di 10.000 nuovi assunti aggiuntivi all’organico di istituto (a dir la verità il primo comma a cadere nelle varie riletture del decreto). Qualcuno si è accorto che ci sono da smaltire almeno altrettanti soprannumerari (e insegnanti da riconvertire), circa 9.700 unità, frutto della riduzione degli orari di lezione previsti e programmati per effetto del riordinamento del sistema.

  • niente stabilità triennale dei supplenti annuali (compresi i posti di sostegno). Gli Uffici Territoriali dovranno provvedere se necessario a “rimodulare” i post annualmente;

  • niente modifiche generalizzate della dimensione, della struttura e dei criteri di formazione degli organici, che vengono rinviate all’avvio di un “apposito progetto sperimentale”, da attuare nel rispetto della vigente legislazione contabile (un passo indietro anche rispetto alla sperimentazione prevista dal ministro Fioroni);

  • niente autonomia finanziaria (cioè, l’affidamento di budget senza vincoli di destinazione), ma “ottimale gestione delle risorse … finanziarie”, fatta salva ovviamente l’attuale legislazione contabile; di cui tutto si può dire, ma non che valorizzi l’autonomia delle scuole, a cominciare dall’erogazione degli stipendi e al pagamento delle supplenze;

  • niente, quindi, budget per le supplenze, il Tesoro intende mantenere saldamente sotto il suo controllo, tramite gli uffici provinciali, questo “tesoretto”, anche perché nessuno gli assicura che sarebbe meglio gestito (in modo “ottimale”) dalle scuole in costanza dell’attuale rigida normativa sugli incarichi e le sostituzioni per periodi più o meno lunghi. Peraltro si attendono da qualche anno le conclusioni della “Commissione mista Ministero-Sindacati” per la revisione delle procedure per le supplenze;

  • niente nuove reti di scuole, se non quella già previste dal Regolamento sull’autonomia (art. 7, DPR 275/99) e non attuato. È comunque significativo che l’estensore del decreto si sia dimenticato di un testo così chiaro che va richiamato quasi integralmente per la sua importanza in questa sede: 2. L‘accordo (di rete) può avere a oggetto attività didattiche, di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento; di amministrazione e contabilità, ferma restando l’autonomia dei singoli bilanci; di acquisto di beni e servizi, di organizzazione e di altre attività coerenti con le finalità istituzionali; … 3. L’accordo può prevedere lo scambio temporaneo di docenti, che liberamente vi consentono, fra le istituzioni che partecipano alla rete i cui docenti abbiano uno stato giuridico omogeneo. I docenti che accettano di essere impegnati in progetti che prevedono lo scambio rinunciano al trasferimento per la durata del loro impegno nei progetti stessi, con le modalità stabilite in sede di contrattazione collettiva. … 4. L’accordo individua l’organo responsabile della gestione delle risorse e del raggiungimento delle finalità del progetto, la sua durata, le sue competenze e i suoi poteri, nonché le risorse professionali e finanziarie messe a disposizione della rete dalle singole istituzioni…. Ma soprattutto è significativo che l’estensore non si sia chiesto perché le scuole non abbiano utilizzato queste preziose indicazioni operative, con le quali avrebbero potuto – senza ulteriori norme o “linee guida” - “reclutare” personale di ruolo (la “chiamata”), utilizzare al meglio il personale Ata, ottimizzare le risorse finanziarie, costruire organici di rete in modo da diminuire sia il rischio della formazione di soprannumerari che la mobilità, e molte altre cose ancora.

Ma, allora che cosa resta dell’”autonomia responsabile”?

Sappiamo solo che al Ministro resta l’onere di emanare entro sessanta giorni dalla conversione in legge del decreto (realisticamente entro il prossimo mese di giugno/luglio) alcune linee guida per l’avvio di una sperimentazione atta a:

  1. consolidare e sviluppare l’autonomia;

  2. potenziare l’autonomia gestionale;

  3. valorizzare la responsabilità e la professionalità del personale.

rispettando i seguenti vincoli:

  1. L’articolo 64 della legge 133/08, per effetto del quale resta confermato – almeno per il Ministero dell’Economia l’obiettivo del “piano programmatico di interventi volti ad una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, che conferiscano una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico” (comma 3), la cui attuazione è sottoposta al controllo del “Comitato di verifica tecnico-finanziaria” (comma 7) che non lascia adito a illusioni. In soldoni in due anni (2011/12) la spesa va ridotta di 5 miliardi e 276 e l’anno prossimo di ben 3.188 euro.

  2. l’articolo 19, comma 7, della legge 111/11, che per la sua chiarezza è il caso di riprodurre per intero e senza commenti: “A decorrere dall’anno scolastico 2012/2013 le dotazioni organiche del personale docente, educativo ed ATA della scuola non devono superare la consistenza delle relative dotazioni organiche dello stesso personale determinata nell’anno scolastico 2011/2012 in applicazione dell’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, assicurando in ogni caso, in ragione di anno, la quota delle economie lorde di spesa che devono derivare per il bilancio dello Stato, a decorrere dall’anno 2012, ai sensi del combinato disposto di cui ai commi 6 e 9 dell’articolo 64 citato”.

  3. l’attuale legislazione contabile, che da ormai da molti anni ha sottratto l’autonomia di spesa alle scuole (stipendi e supplenze comprese), a cui resta in sostanza un capitale pari a non più dell’1% della spesa complessiva per l’istruzione;

  4. senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica; il richiamo è agli ormai famosi “tagli lineari” in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di efficienza, più esplicitamente la procedura prevista dall’articolo 1, comma 621, lettera b) della legge 2006, n. 296. “Al fine di garantire l’effettivo conseguimento degli obiettivi di risparmio di cui ai commi 483 e 620, in caso di accertamento di minori economie, si provvede:
a) relativamente al comma 483, alla riduzione delle dotazioni di bilancio, relative ai trasferimenti agli enti pubblici, ivi comprese quelle determinate ai sensi dell’articolo 11, comma 3, lettera d), della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, in maniera lineare, fino a concorrenza degli importi indicati dal medesimo comma 483; b) relativamente al comma 620, a ridurre le dotazioni complessive di bilancio del Ministero della pubblica istruzione, ad eccezione di quelle relative alle competenze spettanti al personale della scuola e dell’amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione, in maniera lineare, fino a concorrenza degli importi indicati dal medesimo comma 620”.

  5. il concerto con il Ministro dell’Economia e della Finanze (comma 1), il quale ovviamente, reso sospettoso dalle poco trasparenti proposte confezionate in casa dai Ministeriali, si guarderà bene dal farle passare come “linee guida” e modificare gli impegni presi dall’insieme dell’attuale legislazione finanziaria tutta scritta sotto il segno del risparmio e, nei casi migliori, dell’efficienza, cioè di un rapporto chiaro e verificabile tra risorse e risultati. Nulla di più estraneo alle retoriche sulla spesa per l’istruzione e la Cultura.

Le linee guida per avviare la sperimentazione avranno comunque attuazione non prima dell’anno scolastico 2013/14: nuovo Ministro, nuovo Governo (non tecnico), nuovo Parlamento, nuova legislatura!

Ma, anche con questo scenario, è facile prevedere che l’articolo 50 del nuovo Dl non potrà incidere in modo significativo sull’attuale funzionamento e sulla gestione delle scuole. Infatti deve operare in uno spazio strettissimo lasciato libero da una parte dalle attuali norme contabili, di “risparmio programmato” e di vincoli giuridici e dall’altra dalle immodificabili norme contrattuali, che – come ben sappiamo – incidono pesantemente sulla struttura organizzativa della scuola, sugli organi di decisione e sulla distribuzione delle responsabilità e quindi… sull’autonomia. Tra l’altro questi sono i motivi per cui nessuna scuola ha utilizzato l’autonomia di rete prevista dal DPR 275/99.

 

I convitti scomparsi

Con un solo tratto di penna è stato cancellato l’articolo sui “Convitti” (art. 57 della ptrima versione), che nelle intenzioni degli estensori si presentava come un potenziamento ed una estensione dell’autonomia: ordinamento speciale, potestà statutaria, autonomia patrimoniale, parziale discrezionalità nel reclutamento, ecc.

Così si chiude per sempre una vicenda che ha visto questa Lobby tentare pervicacemente di “rifondare” queste antiche istituzioni – spesso eredi dei collegi religiosi – che in un secolo e mezzo, nonostante le cure di Giovani Gentile, del Fascismo (De Vecchi) e di qualche ministro democristiano (Malfatti, in primis) , hanno seguito il loro corso di inarrestabile declino.

Esclusi dal dimensionamento (art. 7, co. 1, DPR 233/98) che per un buon numero avrebbe voluto dire la chiusura, si tengono in piedi con le scuole annesse e i semiconvittori veri o presunti. Per il resto sappiamo solamente che sono una cinquantina (49 e 92 quelli annessi agli istituti professionali), ben distribuiti su tutto il territorio nazionale, con circa 5.000 addetti (esclusi gli insegnanti) e Pof di altisonante vacuità: “eccellenza”, “formazione della classe dirigente”, … oltre a “camere accoglienti e luminose”, “”servizio logopedico”, “intervento psicologico” e “qualificato personale educativo”. Ovviamente, nessuno ci dirà mai quanti sono i convittori.

Il declino di queste istituzioni è un processo irreversibile, come dimostra anche la situazione francese che, in un certo senso li ha inventati (Napoleone) e sostenuti. In Francia i convittori (gli “interni”, non esistono i “semiconvittori” italiani) sono passati dal 29% (1970) degli allievi al 5% di oggi. Solo l’internato privato resiste ancora, ma è anch’esso in forte riduzione (dal 22% del 1970 all’attuale 7%). E non sarà certo il rilancio proposto dal Rapporto Marie Perot-Dumont (2001) a risollevarli da questa lenta agonia.

Il Governo ha quindi fatto una scelta giusta, rinviando al mittente una proposta che non aveva nemmeno una pallida giustificazione per essere esaminata. Resteranno in vita i convitti delle nostre accademie militari, che si sono profondamente rinnovate e così possono legittimamente conservare la loro storica tradizione.

Una buona lezione per coloro che pensano ancora che le istituzioni statali siano immortali “costi quel che costi”, anche quando la “domanda” per mille motivi le rifiuta o vorrebbe un servizio diverso.

 

Potenziamento del sistema nazionale di valutazione (art.51).

L’articolo contiene misure per ribadire – questo è il termine più appropriato – la funzione di coordinamento del sistema nazionale di valutazione, avvalendosi anche dell’Agenzia per la diffusione di tecnologie per l’innovazione. L’ultimo comma “impone” (“attività ordinaria di istituto”) alla scuole di partecipare alle rilevazioni nazionali degli apprendimenti degli studenti.

Questo articolo forse era necessario, non solo in relazione a certe reazioni luddistiche di alcuni gruppi di colleghi di fronte alle iniziative dell’Invalsi ma anche agli onerosi impegni internazionali (vedi Ocse) che l’Italia è tenuta – e ha interesse – ad onorare.

Anche qui sarebbe stato auspicabile un maggiore coraggio e una maggiore energia, rivendicando per l’Invalsi lo statuto di AGENZIA autonoma e indipendente dall’Amministrazione (e dai Ministri), in modo da superare l’attuale “conflitto di interesse” che inevitabilmente contrappone gli appetiti politici (solo momentaneamente “sospesi”) del Ministro di turno e del suo apparato dai fini istituzionali e professionali (trasparenza, affidabilità, validità, comparabilità, ecc.) delle rilevazioni sui risultati del sistema di istruzione. È ovvio che un buon servizio di valutazione può essere anche “polemico” verso le decisioni dei politici.

Una minore timidezza sull’efficienza del sistema avrebbe sicuramente convinto il Consiglio dei ministri a fare questo passo avanti costoso ma di grande utilità per le scuole: uno dei pilastri su cui poggia l’autonomia veramente responsabile.

 

Misure per l’istruzione tecnico professionale e gli istituti tecnici superiori (art. 52).

Due sono gli aspetti positivi dei contenuti delle future linee guida sull’istruzione tecnico-professionale:

1) la costituzione di poli tecnico-professionali. Anche in questo caso un richiamo ad una legge ampiamente ignorata (oggi se ne contano una diecina quasi tutti al Nord) non è un buon augurio, ma potrebbe essere anche un’occasione per creare incentivi all’integrazione dei percorsi. In attesa che il problema venga risolto alla radice e cioè con il decentramento dell’amministrazione di tutto il personale della scuola e la “fusione” strutturale tra percorsi di istruzione e formazione professionale;

2) la promozione della realizzazione dei percorsi di apprendistato, anche se il Ministro poteva fare uno sforzo supplementare e iscrivere definitivamente questo “ordine” nella sua dimensione breve, media e lunga (il diploma superiore) nell’ordinamento dell’istruzione, come avviene in tutti i Paesi civili.

La formulazione della lettera a) invece è decisamente da respingere lì dove impone un contingentamento degli ITS (uno per Regione), il che significa che si faranno male (e saranno inutili) in Regioni – cioè nel Sud – dove non esiste nessuna domanda per i più svariati motivi, comprese le caratteristiche del mercato del lavoro e il monopolio storico delle università, e si sacrificano le Regioni dove c’è urgenza di istituire questo nuovo canale di alta formazione e di diffonderlo nel territorio.

In sostanza è scandaloso che in un territorio come la Lombardia e il Veneto” (15 milioni di abitanti) siano previste due sole fondazioni ITS e una decina di Università.

La Baviera (12 milioni di abitanti) ha dieci Fachhochschule, cioè Istituti tecnici superiori o Istituti di scienze applicate

 

Modernizzazione del patrimonio immobiliare …

Con i piani per l’edilizia abbiamo cominciato presto.

Forse qualcuno ricorda ancora la legge sull’edilizia scolastica del 1967 (Gui ministro), che stanziava 1.200 miliardi nel quinquennio (vedi discussione in Il piano di sviluppo della scuola 1966- 70, Roma, 1968). Sono ancora quei miliardi – modestamente integrati nei decenni successivi – a tenere ancora in piedi la grande maggioranza dei nostri edifici scolastici.

È quindi provvidenziale questo ulteriore contributo di 100 milioni di euro per l’anno in corso con priorità per la messa in sicurezza degli edifici scolastici.

Sono decisamente innovativi alcuni interventi di semplificazione e modernizzazione che dovranno essere contenuti nel piano nazionale, come, ad esempio:

- l’utilizzazione delle aree pubbliche dismesse (comprese le caserme)

- la possibilità di permute con i privati interessati all’acquisto di edifici scolastici non più utilizzabili;

- lo snellimento delle procedure di svincolo della destinazione d’uso scolastico per le scuole dismesse e cedute a privati in cambio di nuove scuole;

- l’adeguamento agli standard europei della normativa tecnica vigente che risale al 1975;

- l’adozione di norme tecniche quadro con riferimento alle tecnologie in materia di efficienza, risparmio energetico e produzione da fonti rinnovabili ed anche alla didattica;

Si tratta di un pacchetto di iniziative di straordinario impegno progettuale e tecnico giuridico, che occuperanno gli specialisti per parecchio tempo.

Sarebbe inoltre utile che il piano – per non fare la fine degli altri miseramente rimasti sempre incompleti – proponesse uno standard temporale alle nuove costruzioni di scuole, superato il quale gli edifici vengono sostituiti o alienati.

Non possiamo più costruire edifici sub specie aeternitatis, per sempre, come nel Ventennio. Cambia quantità e qualità degli utenti, la destinazione, il bacino di utenza, la collocazione e la funzione urbanistica, e l’edificio deve sempre restare al suo posto? … e subire rimaneggiamenti, costose manutenzioni straordinarie, integrazioni, superfetazioni, ecc. con pessimi risultati funzionali ed estetici?

Gli edifici scolastici devono avere una vita che tenga conto di un sistema scolastico in rapida evoluzione e quindi aperto ad accogliere novità e cambiamenti anche radicali. Un nuovo edificio deve essere costruito per “morire” dopo 25/30 anni al massimo, quando le opere di manutenzione cominciano a costare di più del suo valore di mercato.

A parte questo consiglio tecnico, per utilizzare al meglio l’opportunità del piano è augurabile che il Ministro provveda a sollecitare le Regioni inadempienti alla realizzazione del dimensionamento delle scuole (oggi meno della metà su 1300 previste), in modo che le scarse risorse a disposizione non si disperdano in interventi inutili e irrazionali.

Ed è ancora più augurabile che questo “messaggio” del Ministro arrivi anche alle Università e agli studi professionali, in modo che in Italia si riapra finalmente il dibattito, la ricerca scientifica, tecnica ed estetica, e la realizzazione sull’edilizia scolastica interrotte inopinatamente negli anni ’70, in modo da sottrarla al colpevole disattenzione, che al Sud arriva ai limiti del “delitto colposo”.

 

Conclusione: un insegnamento per tutti

Le vicende del decreto legge nelle sue varie redazioni sono interessanti sul piano generale perché se ne possono trarre tre insegnamenti per il futuro:

1) che la stretta economica che attanaglia l’Italia e non solo non è affatto un episodio passeggero ma ha le caratteristiche di una crisi di sistema, mette in discussione l’intero assetto della spesa pubblica del nostro Paese. Se ne esce solamente con uno sforzo di ripensamento radicale del ruolo dello Stato nella gestione dei servizi pubblici, compresa la scuola;

2) che va abbandonato il pregiudizio che più spesa pubblica per la scuola significhi più istruzione. La ricerca internazionale dimostra che non esiste nessun rapporto diretto – nei paesi ricchi – tra la spesa/Pil per l’istruzione e la qualità dei risultati. Se fosse vero quanto sostengono quelli del “partito della spesa” gli Usa dovrebbero essere al vertice di tutte le valutazioni e non è così, non è così nemmeno per il Trentino;

3) che la scuola sopravviverà a questa crisi e troverà nuovo impulso solo saprà abbandonare rapidamente il modello di gestione delle risorse che l’ha caratterizzata fin dagli anni ’70, centrata quasi esclusivamente sull’incremento degli organici e i bassi salari del personale, insegnanti in primo luogo.

Ancora una volta il problema per la scuola Italiana è quello della qualità: spendere meglio.