Antiseri: se Monti vuol riformare qualcosa, intervista di Federico Ferraù a Dario Antiseri il Sussidiario 6.2.2012
Sull’inserimento delle spese per
l’istruzione nel
nuovo redditometro, il filosofo Dario Antiseri tiene a fare una
precisazione. «Che una famiglia mandi un figlio in una scuola non
statale può essere indice di un benessere maggiore che in altre
famiglie; tuttavia ci possono essere casi – e ce ne sono tanti – di
famiglie che decidono di mandare i figli in una scuola non statale
in nome di una libertà non garantita altrimenti, e facendo enormi
sacrifici. Certo è che le spese sostenute per l’istruzione non
possono in alcun modo essere paragonate all’acquisto di beni
voluttuari. Per evitare polemiche sul redditometro occorrerebbe
risolvere il problema alla radice: dare a tutte e famiglie un bonus
da spendere come vogliono per l’istruzione dei propri figli».
Commenta così Dario Antiseri l’ultima novità in fatto di istruzione,
arrivata settimana scorsa nel pieno del dibattito sull’abolizione
del
valore legale del titolo di studio, oggetto di una retromarcia
del governo. Anche su questo il professore ha qualcosa da dire.
«Abolire il valore legale equivarrebbe a riconoscere un fatto
inoppugnabile, è cioè che titoli di studio apparentemente
equivalenti hanno valore reale diverso, a seconda dell’università
dove sono conseguiti. Mi chiedo: perché, in un concorso per titoli,
una laurea a pieni voti ma priva di valore reale, deve valere più di
una laurea non con il massimo dei voti ma molto più solida in
termini di conoscenze e competenze?».
Di maggiore libertà e di maggiore
equità, perché se chi ha una preparazione inferiore viene valutato
di più in virtù del valore «legale» del titolo, questa è una
un’ingiustizia, e un danno per il mondo del lavoro. Aggiungo però
che l’abolizione del valore legale sarebbe una componente certamente
necessaria ma non unica nel quadro di una riforma vera del sistema
formativo.
La cosa più importante da fare è
quella di dare ai giovani pari condizioni di partenza, cioè la
stessa possibilità di frequentare questa o quella università.
Facciamo l’esempio di un giovane che voglia frequentare un ateneo di
qualità fuori della sua città. In Francia ci sono circa 100mila
posti letto destinati agli studenti universitari, in Germania ce ne
sono 220mila, in Italia 35mila: è una situazione che impedisce al
sistema di funzionare in modo equo, perché se una famiglia deve
spendere 6/700 euro per un posto letto e non li ha, quel giovane è
costretto a scegliere l’ateneo più vicino a casa; che potrebbe
essere eccellente, ma potrebbe anche essere di serie B. Dunque la
prima urgenza si chiama edilizia universitaria e borse di studio. In
secondo luogo, negli ultimi anni ci siamo riempiti di giovani che
non faranno il lavoro per cui hanno studiato.
Sì, come scienze della formazione o della comunicazione. Per
laureare questi giovani, candidati alla disoccupazione o a cambiar
mestiere, abbiamo speso un sacco di soldi. Vedrei bene che il
ministero, le associazioni, Confindustria, ecc. date la situazione
demografica, di flussi, occupazionale e via dicendo, quantificassero
periodicamente il fabbisogno di laureati stimato. A quel punto
famiglie e università sono sull’avviso, ferma restando la
possibilità per ognuno di fare quel che vuole.
Le università mettano il numero chiuso e al tempo stesso diano
l’informazione necessaria: una sorta di «avviso ai naviganti» che
traduca in numeri il fabbisogno del mondo del lavoro.
Se non riusciremo a immettere nell’università forti elementi di
competizione non ci sarà niente da fare. Una cosa positiva che la
Gelmini ha fatto è l’Anvur. Se tu, università, fai didattica
scadente, non fai ricerca, non fai buoni progetti, io – Anvur – non
ti do soldi e ti faccio chiudere i corsi. L’Anvur è il punto di non
ritorno: se non funzionerà, la nostra università crollerà.
Il buono scuola, cioè un bonus che l’utente avente diritto spende
nella scuola di sua scelta. Qualcuno ha notato che di buono scuola
non si parla più? Ma la cosa grave è che si occulta il fatto che con
il buon scuola lo Stato spenderebbe di meno. Anche in questo caso è
una questione di equità: non si è capito che il buono scuola è una
carta di liberazione per le famiglie più povere, perché oggi chi
manda i figli in una scuola libera paga le tasse per un servizio di
cui non usufruisce – la scuola pubblica – e in più paga la retta:
paga due volte! Non a caso veri liberali come Friedman e Hayek hanno
difeso il buono scuola come lo strumento più importante per
immettere competizione nel sistema formativo.
No, questa è una stupidaggine. A meno che non si sia per principio
contrari alla libertà. La scuola di Stato ha avuto una sua precisa
ragione d’essere: quale privato, nel 1946, avrebbe potuto soddisfare
il bisogno di scolarità dell’Italia di quegli anni? Solo lo Stato
poteva garantirla a tutti. Oggi però la situazione è totalmente
diversa. Lo Stato ovunque è socialmente necessario, la competizione
ovunque è storicamente possibile: questo è il principio della
libertà, anche nel campo dell’istruzione.
Lei prima ha citato Einaudi, io le vorrei citare altri due giudizi
assai lungimiranti. In una articolo intitolato Scuola e diplomi e
pubblicato il 12 febbraio del 1950 su L’illustrazione italiana,
Sturzo diceva, a proposito del valore del titolo rilasciato dallo
Stato: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve
poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome
della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di
Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna: il titolo vale la
scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione
rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione,
o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato,
se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti».
La cosa interessante è che il 14 settembre 1918, non un liberale
cattolico ma Antonio Gramsci, in un articolo uscito su Il grido del
popolo, scriveva: «noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della
scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai
Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è
indipendente dal controllo dello Stato. Il compagno Bartalini non ha
trovato difficoltà nel suo esperimento perché direttore di na scuola
pareggiata; non è però escluso che in avvenire il Provveditore
intervenga e rovini tutto il lavoro fatto. Noi dobbiamo farci
propugnatori della scuola libera e conquistarci la libertà di creare
la nostra scuola. I cattolici faranno altrettanto dove sono in
maggioranza; chi avrà più filo tesserà più tela» (corsivi nel testo
originale, ndr). Avere potere senza portarne la responsabilità. È il peggior tratto di un sistema totalitario. |