I vizi della rivoluzione digitale a scuola di Paolo Mottana* Educazione & Scuola 26.12.2012 I nuovi profeti della informatizzazione integrale stanno conducendo da tempo e con forze sempre più agguerrite la loro campagna di conquista della scuola. Come dargli torto? Posto che un giorno ciò possa avvenire, si tratta di un territorio che può fruttare dividendi enormi per chi si dovesse accaparrare la commessa di LIM e tablet su scala nazionale… Per carità, lungi da me l’idea di voler maleficare questi strumenti straordinari: si tratta di giocattoli assai affascinanti e che hanno indubbiamente il merito di svecchiare procedure didattiche logore e di introdurre il medium visivo in un ambiente che ne è rimasto fin troppo digiuno. La questione è più radicale però. I nuovi teoreti della digitalizzazione scolastica ammantano le loro proposte con una retorica ben nota, in ambito educativo, che fa riferimento alla didattica della ricerca, al learning by doing, all’apprendimento cooperativo (cfr. Ferri – Moriggi, su Agenda digitale, dicembre 2012). Tutte bellissime cose, anche se un po’ datate per la verità, la ricerca in classe si faceva già negli anni ’60, seppure certo con strumentazioni meno sofisticate… e per quanto riguarda il learning by doing, è uno degli slogan più declamati e però poi scarsamente realizzati, nella sua intima complessità, dell’intera storia del pensiero pedagogico. Ma diamo atto a questi riformatori delle loro buone intenzioni. E tuttavia occorre rimarcare il ruolo della scuola, cui, a mio giudizio, ben oltre ogni considerazione economica o didattica, occorre guardare. Al possibile ruolo della scuola, purtroppo raramente incarnato, e specie in questo frangente storico. Acuti osservatori della nostra contemporaneità hanno messo in rilievo, come Bernard Stiegler, tra gli altri, che stiamo vivendo, a causa della “captazione dell’attenzione” generata proprio dalla congerie di dispositivi elettronici e audio visuali da cui siamo circondati, un progressivo “immiserimento simbolico”. Che, cioè, il nostro essere immessi continuamente in un flusso di messaggi, informazioni, immagini non-stop, grazie appunto alla molteplicità di terminali cui siamo connessi, sta di fatto rendendo impossibile pensare e formulare pensieri con un linguaggio che risulti da una riflessione e non da una semplice reazione a ciò cui siamo continuamente esposti. Non diversamente, Yves Citton, pone fortemente in guardia da una “società della conoscenza” che non rende possibile l’esercizio di quella facoltà tipicamente umana che ci consente di interrogare e porre dei dubbi su ciò che ci assedia con questa continua stimolazione, cui rispondiamo ormai con la stessa rapidità di un circuito galvanico. Citton rivendica giustamente, nel suo bel libro Future umanità, la necessità di momenti di vuoto, di sospensione della risposta rapida, per potervi inscrivere l’atto riflessivo per eccellenza, riflessivo e inventivo ma anche interrogativo, l’interpretazione, che è al cuore di tutti i sapere umani non asserviti alla macchina del fare. Per essere più esplicito e per usare qualche metafora, siamo sempre con la spina attaccata. A scuola sarebbe bene staccarla questa spina per avere il tempo di osservare come funzionano i dispositivi che da quella spina sono alimentati. A scuola si dovrebbe smontare la tecnologia, guardarci dentro, interrogarne le motivazioni, il funzionamento, l’immaginario, l’ideologia. Non si dovrebbe permettere a ciò che già ci influenza già continuamente e ovunque, di spadroneggiare e colonizzare anche quegli spazi e quei tempi. La scuola deve funzionare un po’ come una chiusa nei confronti del flusso di questo ramificatissimo sistema di canali nei quali scorriamo a velocità sempre più vertiginose. Una chiusa dove aprire un tempo della domanda, dell’interpretazione. Ciò spiega perché a scuola occorre spegnere i cellulari. Non solo e non tanto perché distraggono e disturbano, ma soprattutto perché mantengono costantemente connessi a ciò da cui bisogna separarsi per poterlo pensare, per poterlo decostruire, per poterlo interrogare. Tra l’altro, per venire ad un altro degli slogan dei nostri ideologi, quello dello studente-ricercatore, i ragazzi sono già degli abilissimi ricercatori in rete, e lo dimostra la produzione di lavori scritti e di tesi sempre più frutto di un abile lavoro di taglia e cuci da ciò che si trova ampiamente grazie a internet. Non è di questo che hanno bisogno, ritengo. Certo, se il problema è svecchiare una didattica spesso davvero consunta, la cosiddetta didattica frontale e i suoi nozionismi, sono perfettamente d’accordo (per quanto anche qui con cautela, perché la capacità di ascolto è qualcosa che va anche esercitato, magari anche attraverso l’interpunzione audio-visuale). E tuttavia la scuola non può, per mantenersi al passo con i tempi, diventare un’altra sede di un fare tutto schiacciato sulla velocità dei flussi di informazione della rete. Occorre rallentare, smagliare, aprire dei vuoti, altro che rincorrere le velocità siderali della banda larga. E infine una considerazione che sempre più ha l’aria di un grido nel deserto. I nostri sostenitori della scuola digitalizzata non fanno certo mistero di avere in mente un’idea di scuola del tutto cognitiva, centrata sugli allievi come esseri portatori di cervello e sprovvisti di corpo. Non è una novità. Quando mai i corpi dei ragazzi sono davvero entrati nella scuola? Questo mancato riconoscimento è uno dei delitti capitali della scuola e sarà sempre troppo tardi accorgersi che il coinvolgimento del corpo, delle emozioni, dell’espressività, della creatività è fondamentale per generare autentico apprendimento. Ecco allora che alla scuola digitalizzata vorrei ancora una volta contrapporre, oltre ad una scuola interpretante e critica, oltre ad una scuola che sappia mettere le distanze tra sé e le richieste del mercato digitale, una scuola (che ancora mai si è data, per parlarci chiaro, almeno in maniera diffusa) in cui si restituisca, specie in quell’età in cui ciò è oggettivamente cruciale, al corpo, all’espressività, alla creatività, attraverso teatro, danza, musica, arte, il ruolo centrale che meritano ( e che meritano i bambini e i ragazzi interi, vivi e ricchi di potenzialità inespresse).
* docente di Filosofia dell’educazione, Università di Milano Bicocca |