Tra candele e diagrammi Emiliano Sbaraglia l'Unità, 6.12.2012 Non voglio nascondermi, e dico subito che forse di queste 70 batterie composte ciascuna di 50 domande, con le quali ogni notte (a 40 anni e passa di giorno si prova a lavorare, per provare a sopravvivere) sono costretto a confrontarmi ormai da una settimana, ne avevo bisogno anch’io. In fondo non è così male rispolverare un po’ le vecchie formule matematiche, tornare sulle equazioni, verificare i diagrammi degli insiemi, cimentarsi grammaticalmente con una lingua straniera, fare il punto sulle conoscenze informatiche acquisite in questi anni di pratica forzata (continuo a preferire un libro letto sulla spiaggia, o anche un giornale/rivista, e prendere appunti a mano): è una pratica che aiuta a fermarsi un attimo, per riflettere sulle proprie capacità, e le proprie lacune. E poi con questi test siamo tutti un po’ coinvolti. Ancora una volta «la scuola siamo noi», ancora una volta varie categorie, non solo quella degli insegnanti o aspiranti tali, si sentono parte in causa quando si tratta di scuola. E così torni a cena dai tuoi, dopo tanto tempo, per rifocillarti nella maniera giusta prima di affrontare la battaglia (50 domande, 50 minuti, 35 il punteggio richiesto, la risposta sbagliata mezzo punto in meno); telefoni a vecchi compagni di università, con i quali improvvisamente ti ritrovi sulla stessa barca, per cercare soluzioni («ma quante pesate serviranno per queste maledette candele?»); ti porti il foglietto in tasca con le domande scritte per l’esperto di computer, che ormai quando arrivi a lavoro ti guarda e scappa via («prendo il caffè e arrivo…») per paura dell’ennesimo interrogatorio; il fratellino o la sorellina ti danno una mano ogni tanto, perché un tocco di freschezza mentale, generazionale, a fine giornata ci vuole («Non è la 4, è la 3, è la stessa dell’altro concorso che ho provato io… …Qui parti dalle risposte, non dalle domande, che così fai prima»); la compagna (o il compagno) di sempre scrive tutto pazientemente su un grosso blocco, «altrimenti che vai avanti a fare?». Insomma, un piccolo e atipico girone infernale, dal quale sembri inghiottito senza scampo e per il quale neanche la coppia Dante-Virgilio, di solito così taumaturgica, pare riesca a consolarti, quando la incontri ormai quasi all’alba, iniziando a preparare anche l’eventuale prova scritta. D’altronde, parola di ministro, l’ultimo concorso è datato 1999, e il mondo è progredito. Vero, assolutamente vero. Però già qui si insinua (se volete vi sparo pure un paio di sinonimi a bruciapelo) un primo dubbio: ma quelli che quel concorso lì lo avevano vinto, e la cattedra ancora non ce l’hanno, che fine faranno? E se lo vincessimo anche noi, la nuova sfornata di nuovo secolo, che fine facciamo? Nel senso: va bene il test d’ingresso, ingurgitiamo tutte le batterie, peseremo le candele nel modo giusto, capiremo quale risposta corretta segnare nel caso in cui sia assolutamente certo che «quando viene fotografato Alfonso sorride. Ma se nessuno fotografa Alfonso, Mario telefona a Giuseppe» (inutile dire che «Ieri Alfonso non è stato fotografato»). Poi, se tutto procede, supereremo anche le prove scritte, e la lezione frontale da tenere agli studenti come prova orale (sono ammessi scongiuri). Ma finito tutto questo, cosa succederà? Ci saranno anche le cattedre (nel nostro gergo di supplenti disperati si chiama «concorso a cattedra», per l’appunto) o ci resterà soltanto la gratificazione di aver individuato il diagramma che soddisfa la relazione insiemistica esistente tra «conducenti di autobus, cittadini di Sassari e persone simpatiche»? Perché se così fosse ditelo subito, così ci prepariamo anche a quello (ormai ci prepariamo a tutto, per tutto, su tutto). Ci sono poi altri dubbi. E provengono non tanto da alcune risposte che non convincono nei test (ce ne sono, e in rete cominciano a spuntare come funghi), ma dalla valutazione generale del candidato. Perché un docente, meglio, un insegnante, non si può giudicare attraverso un criterio da settimana enigmistica. Un insegnante deve essere valutato non soltanto per le sue capacità cognitive o di prontezza nel rispondere a un questionario. Se si vuole veramente cambiare la scuola, se si vuole veramente cambiare questa scuola, credo che altrettanto valore debba essere attribuito anche alle sue capacità di stare in classe, di saper attirare l’attenzione degli studenti attraverso argomenti e metodi didattici adeguati, funzionali non solo ai tempi ma anche alle persone, le persone che ti trovi di fronte ogni mattina, che vivono un periodo della loro vita delicato e decisivo; e che cambiano, perché crescono giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi. Molti professori, diciamoci la verità, di tutto questo non si accorgono, o forse fanno finta di non accorgersene, o non se ne preoccupano. Molti altri sì, invece, e se riescono a coniugare questa loro attitudine con le competenze specialistiche adeguate risultano essere i professori migliori, a detta di tutti: dirigenti scolastici, genitori, studenti. Allora perché una volta, magari la prossima volta, non cambiamo l’ordine degli addendi? Perché al prossimo concorso, per fare selezione a monte (perché questo è il naturale scopo dei test) invece che iniziare dai quiz non cominciamo proprio dalle aule, dal clima di rispetto reciproco e di lavoro comune che un insegnante deve esser capace, sin da subito, a creare nella «sua» classe? Si potrà obiettare che non tutti siano portati a una prova del genere. Ma stavolta la risposta è piuttosto semplice: non è il dottore che ci ordina di esercitare questa professione, che al di là delle denigrazioni subìte in questi anni, nel pubblico e nel privato, rimane tra le più belle e importanti che esistano al mondo, in qualsiasi circostanza, ad ogni latitudine. Per imparare a risolvere un quesito di logica in fondo basta qualche giorno di applicazione. Essere insegnanti è tutta un’altra storia. |