Scuola pubblica,
un’altra Agenda è possibile

Marina Boscaino Pubblico giornale, 30.12.2012

Quali sono le priorità relative alla scuola in un programma politico di governo? Certamente non quelle che, un po’ svogliatamente, a dire il vero – sono state inserite a p. 9 dell’Agenda Monti. Cambiare rotta davvero – ma chi aveva stabilito o chi ha contribuito a stabilire la rotta precedente? – significa provare a determinare qualche elemento davvero imprescindibile e poi praticarlo concretamente, con precise destinazioni di risorse economiche, umane, professionali, culturali, in un ambito che, emerso da lustri di incuria e di sottovalutazione, avrebbe bisogno della concentrazione su molti più elementi di quanti io abbia messo in rilievo.

1) Innanzitutto parlare di scuola. Restituire, cioè, alla scuola la propria specificità: temi, analisi, proposte, riflessioni dovrebbero ricondurre costantemente ad un modello pedagogico-didattico (che evidenzi innanzitutto che la scuola serve per educare, istruire, rendere cittadini giovani in formazione) e non a questioni di bilancio e di contrazione di spesa. Da troppo tempo si discute – e, addirittura, si articolano proposte e si approvano leggi sulla scuola – dimenticando che cosa è la scuola stessa. Si “riforma” la scuola non per migliorarla effettivamente rispetto alla sua vocazione costituzionale (che, a prescindere da ciò che ormai molti considerano sentimentalismo, rimane vigente e prioritaria), ma per renderla sempre meno capitolo di spesa che gravi sulla finanza pubblica, rimuovendo o ignorando il senso specifico della sua funzione.

2) Innalzamento dell’obbligo scolastico. Se “ce lo chiede l’Europa” è il mantra che ha accompagnato da un decennio le scelte (soprattutto quelle di contrazione) a carico della scuola, dimentichiamo troppo spesso che siamo l’unico Paese europeo che prevede un obbligo di istruzione – e non scolastico – a 16 anni. Da noi – anomalia dalle pesantissime conseguenze in ambito politico, civile, oltre che culturale – l’ultimo anno del biennio delle superiori (ad esempio il V ginnasio) ha lo stesso effetto dal punto di vista dell’adempimento dell’obbligo di un anno di apprendistato, o di un anno speso nella formazione professionale. È evidente, però, che i profili di uscita (culturali e di cittadinanza) non sono gli stessi. Nonostante il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione), licenziamo sedicenni con competenze culturali e di cittadinanza molto differenti, in coerenza con le loro provenienze socio-economiche-culturali: la scuola non più come strumento che rimuove “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, ma come elemento di immobilizzazione di destini socialmente determinati. Per procedere ad un effettivo innalzamento dell’obbligo, però, la scuola non può rimanere così com’è.

3) Generalizzazione della scuola dell’infanzia ed effettiva laicizzazione della scuola. Sono due elementi che camminano di pari passo. La frequenza della scuola dell’infanzia rappresenta un elemento qualificante del percorso scolastico di un individuo. Diversi studi affermano la sua incidenza sulla maggiore o minore propensione alla dispersione o al ritardo scolastici, con tutte le conseguenze – anche a livello sociale – che ciò comporta. Le scuole dell’infanzia sono oggi per il 16% paritarie. E questo da una parte contraddice quanto la Costituzione afferma al comma 2 dell’art. 33 “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”; dall’altra dà buon gioco ai sostenitori della parità scolastica (che a sua volta contravviene al “senza oneri per lo Stato” previsto dallo stesso articolo della Costituzione) di ribadire la necessità di quella norma. Sta di fatto che l’81% delle scuole paritarie sono confessionali. Il che crea un corto circuito pericolosissimo, che viola una serie di principi, quali quelli richiamati nonché la libertà di insegnamento.

4) Lotta senza quartiere alla dispersione scolastica. Una piaga dalle conseguenze catastrofiche per il nostro futuro e dai costi immediati, non solo a livello di vicende individuali, ma anche per l’intera società. La strategia di Lisbona prima, poi UE 2020 hanno invitato il nostro Paese ad individuare anticorpi rispetto alla dispersione; ma i progressi fatti dal 2000 ad oggi sono piuttosto irrilevanti e rimane una percentuale di dispersione pari al 18%, che ci colloca tra i Paesi più in difficoltà da questo punto di vista. Come l’innalzamento dell’obbligo scolastico, anche la lotta alla dispersione prevede una reale riforma della scuola, che – nella differenza delle situazioni geo-sociali – individui elementi di garanzia per l’apprendimento di tutti, livelli minimi di prestazioni, conoscenze e competenze imprescindibili di cui ciascun cittadino italiano deve essere dotato entro l’età dell’obbligo. In più, il fenomeno della dispersione prevede una revisione di alcuni elementi formali – formazione delle classi, ad esempio – e sostanziali – modelli relazionali e didattici – la realizzazione dei quali (insieme all’introduzione di figure di specialisti nelle scuole a rischio), implicherebbe un forte investimento nella formazione dei docenti.

5) E’ di tutta evidenza che delle scuole insicure rappresentino un ossimoro intollerabile. L’edilizia scolastica è uno degli elementi su cui le promesse elettorali indugiano, salvo dimenticanze di lungo e di breve periodo. Fatto sta che, anno dopo anno, registriamo episodi che mettono a rischio l’incolumità immediata e non (si pensi al problema dell’amianto) di studenti e lavoratori. Un piano speciale per l’edilizia scolastica non potrebbe rappresentare un modo per incentivare la ripartenza dell’economia?

6) Personale della scuola: sistema di reclutamento, formazione iniziale e formazione in itinere sottratti anch’essi alle logiche che da una parte hanno creato la piaga del precariato, dall’altra hanno alimentato continui cambiamenti delle regole, fino allo scandalo delle prove preselettive dei concorsi per dirigente e per docente. Rendere la docenza scolastica una professione appetibile significa – oltre a reclutare attraverso sistemi equi invece che con pagliacciate demagogiche, tecnocratiche e non esenti da cooptazioni non trasparenti – anche motivare chi vi accede attraverso salari realmente in linea con quelli europei ed analoghe condizioni di lavoro: luoghi per lo studio e la ricerca, dotazioni di strumenti tecnologici, accesso privilegiato all’acquisto di materiale culturale. E significa, soprattutto, evitare accostamenti impropri ammantati di ideologia neoliberista quali il termine “produttività” alla professione docente.

7) Infine, democrazia scolastica. Arrestare senza tentennamenti la deriva mercantilistica che ha caratterizzato non solo l’approccio alle politiche scolastiche, ma persino alcune proposte (a partire dalla legge sull’autonomia del ’97, fino al ddl Aprea e successive modificazioni). La scuola deve essere restituita alla sua funzione di istituzione dello Stato (come la magistratura), che persegue fini di interesse generale e sottratta alla funzione di servizio che le scelte politiche ed amministrative le hanno attribuito dal ’93 ad oggi. Non occorre inventare strategie particolari: è scritto tutto nella Costituzione, a partire dal concetto di autonomia, che malauguratamente è stato usato nel ’97, configurando un percorso estremamente differente da quello prefigurato dalla Carta. Un’autonomia nello Stato e non dallo Stato, che si articoli in particolare attraverso un’autonomia dagli esecutivi di turno, con i quali si dovrà interagire, ma in un autogoverno autonomo, a cominciare da un ripristinato ruolo del Cnpi, non più presieduto dal ministro.

Considerato che molti di coloro che sono arrivati fin qui nella lettura andranno probabilmente nei prossimi giorni ad esprimere la propria preferenza alle primarie del centrosinistra e, in febbraio, alle politiche, sarebbe auspicabile che tra i criteri individuati per determinare il proprio voto ci sia anche l’esplicita dichiarazione di interesse e di impegno da parte dei candidati prescelti sul tema della scuola statale, inclusiva, laica e democratica.



Quali sono, dal punto di vista della ricerca scientifica, gli effettivi risultati per l’ap- prendimento dell’utilizzo delle tecnologie digitali nella scuola?

Contrariamente a quanto si è indotti a pensare la ricerca educativa basata su evidenza mostra ormai da decenni che in termini di efficacia dell’apprendimento i risultati sono assai modesti; in molti casi si può verificare anche un abbassamento degli apprendimenti, dovuto verosimilmente alle difficoltà di gestire i fattori di sovraccarico, distrattività o estroflessione che le tecnologie possono introdurre. In breve, se si vuole che gli studenti apprendano di più (la matematica, le scienze, la storia, eccetera) non sono le tecnologie la via maestra. Questo non vuol dire che le tecnologie non si debbano inserire nella scuola; ci sono situazioni particolari (ad esempio si pensi alla didattica speciale, all’individualizzazione dei percorsi) oppure ragioni culturali (sviluppare competenza digitale, superare il digital divide e così via) per inserirle. Però sono comunque scelte che vanno assunte consapevolmente, orientandole a scopi mirati.

Quali sono le ragioni del grande spazio riservato alle stesse tecnologie nell’immaginario didattico?

Le tecnologie sono un tratto caratterizzante la vita dell’uomo; da sempre, l’uomo ha costruito nei secoli la propria identità con e nelle tecnologie. L’immaginario tecnologico ha una lunga storia. Più recentemente le tecnologie “cognitive” sono diventate fonti più subdole di seducenti aspettative (e di fuorvianti deduzioni pedagogiche); un genitore (o un insegnante) che vede un bambino smanettare con una certa abilità su un qualunque nuovo oggetto tecnologico è indotto a immaginare di essere di fronte a nuove forme di pensiero, o a nuovi geni in erba; allo stesso tempo è portato a vedere la scuola come arretrata, “da rottamare..”, gli insegnanti inadeguati e così via. Poi si scopre la verità; quelle maestrie manipolative dei cosiddetti nativi digitali non si accom- pagnano quasi mai ad un avanzamento qualitativo dei processi di pensiero.

Quali modelli e quali contenuti possono essere davvero efficaci per formare in modo utile coloro che si occupano di didattica?
Anche qui la ricerca evidence-based dispone oggi (rispetto a qualche anno fa) di risultati affidabili. Intanto sono le metodologie (e non le tecnologie) che fanno la differenza. Tra le metodologie hanno maggiore efficacia quelle che sono orientate a conseguire obiettivi ben chiari, che valorizzano l’interazione (il feedback), la ripetizione sistematica degli apprendimenti in contesti va- riati e la consapevolezza autoriflessiva che deve accompagnare l’apprendimento.


Quali criteri possono essere utili per la progettazione e le decisioni istituzionali in merito alle politiche scolastiche, compito di chi ha un ruolo di decisore?

Per i decisori di politiche tecnologiche si potrebbe fare un decalogo veloce: non inse- rire mai le tecnologie per poi lasciare che si trovi dopo (o emerga) il senso del loro utilizzo educativo; tenere conto dei tempi di de- cadimento delle tecnologie stesse (obsole- scenza e così via); non fare introduzioni massicce, ma sempre mirate a specifiche finalità; far precedere l’introduzione da formazione degli insegnanti; procedere con rapporti circolari teoria-pratica; iniziare dagli ambiti nei quali è più evidente il valore aggiunto (bisogni speciali, drop-out, intercultura, lingue straniere).