Tullio De Mauro: Italia analfabeta
Il linguista lancia l'allarme incultura
Secondo l'accademico della Crusca soltanto il 20
per cento degli italiani
è in grado di orientarsi nella vita della società contemporanea
di Bruno Simili
Il Messaggero,
1.12.2012
Pubblichiamo un estratto dell’intervista di Bruno Simili al
professore Tullio De Mauro pubblicata sulla rivista trimestrale di
cultura e politica Il Mulino, da luendì nelle librerie.
De Mauro parla non solo della scuola ma dei problemi dell’istruzione
in Italia, del tasso di analfabetismo e del confronto con gli altri
Paesi europei.
Al Mulino ha affidato le pagine più belle in cui racconta la propria
giovinezza tra Napoli e Roma tratteggiando l’Italia degli anni
1930-1950. Linguista di fama internazionale, De Mauro all’attività
di studioso ha sempre affiancato l’impegno civile con una costante
attenzione alle politiche per l’educazione e alla scuole. Dal 2000
al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione e dal 2007 è
presidente del Premio Strega. Nel fascicolo numero 6 della rivista,
tra gli altri articoli, anche quelli di Loredana Sciolla e Claudio
Giunti sull’istruzione, un approfondimento sul caso italiano di
Michele Salvati e Paolo Onofri oltre ad una Finestra sul mondo e al
Confronto sulla political economy di Germania e Italia.
ROMA - Anche nel caso della scuola, come per tanti altri problemi
veri, assistiamo a una sorta di paradosso. Sembra quasi che, con il
crescere dei dati disponibili e dei conseguenti allarmi, crescano
anche l’inattività e il disinteresse.
Non crede che i partiti dovrebbero
sfruttare questo vuoto del governo tecnico per farsi portavoce di un
programma per la scuola sintetizzato, per quanto possibile, in un
programma politico?
«In un momento che mi appariva molto triste, anzi drammatico,
all’inizio del primo governo Berlusconi, l’editore Laterza ideò una
collanina di volumi intitolata Idee per il governo. A me affidò il
volumetto La scuola. Ciò che sto per dirle ora lo avevo già scritto
allora e, per quanto sia odioso citarsi, la sua domanda mi costringe
a farlo. La risposta può essere riassunta sinteticamente in tre
punti».
Vale a dire?
«Innanzitutto sulla nostra vita associata il livello di
incultura della popolazione adulta pesa enormemente. È un livello
della cui pochezza non ci rendiamo conto perché la scuola ha
lavorato per portare nuove generazioni a livelli alti di istruzione,
perlomeno formale – cifre mai viste in questo Paese, al 75, all’80%
di diplomati. Nonostante gli ammonimenti di molti demografi, ma
anche di economisti come Sylos Labini (...), noi ci immaginiamo che
quell’alta percentuale di persone che hanno proseguito oltre la
scuola media e sono arrivati al diploma sia proiettabile sulla
società nel suo complesso. Non è così».
È una consapevolezza relativamente
recente, però.
«È nel 1995 che accade qualcosa di nuovo dal punto di vista
dell’acquisizione dei dati. Prima di allora avevamo a disposizione
solo ipotesi e congetture sullo stato delle effettive competenze
degli adulti, al di là dei livelli formali di istruzione. Ora
possiamo contare su due indagini comparative internazionali,
osservative, sui livelli di alfabetizzazione degli adulti; dall’anno
prossimo dovremmo avere ogni tre anni i dati del programma Ocse sui
livelli di alfabetizzazione. A costo di apparire troppo enfatico,
devo dire che già adesso però il quadro è drammatico».
Dati catastrofici, da quel che so.
«Effettivamente i dati che vengono fuori per il nostro Paese possono
essere definiti catastrofici. Queste indagini vengono condotte
osservando il comportamento dinanzi a sei questionari graduati e
vedendo come gli interpellati rispondono, se rispondono, a richieste
di esibire capacità di lettura e comprensione, scrittura e calcolo.
È interessante notare che in tutti i Paesi ci sono fenomeni di
regressione in età adulta rispetto ai livelli formali, e questo del
resto è il motivo per cui l’Ocse ha sposato questa indagine. Questo
– oramai bisogna rassegnarsi – è un dato fisiologico.
Quanto ricordiamo, ad esempio, dei
nostri studi liceali...
«Sì. Ad esempio, quanto greco, per chi lo ha studiato per cinque
anni brillantemente, rimane dopo vent’anni? Nulla o quasi, se non si
continua a sfogliare qualche libro in greco ogni tanto. Fenomeni di
regresso appartengono alla fisiologia, entro certi limiti
naturalmente. Ma noi siamo alla patologia (...) I nostri dati sono
impressionanti. Un 5% della popolazione adulta in età di lavoro –
quindi non vecchietti e vecchiette, ma persone tra i 14 e i 65 anni
– non è in grado di accedere neppure alla lettura dei questionari
perché gli manca la capacità di verificare il valore delle lettere
che ha sotto il naso. Poi c’è un altro 38% che identifica il valore
delle lettere ma non legge. E già siamo oltre il 40%. Si aggiunge
ancora un altro 33% che invece legge il questionario al primo
livello; e al secondo livello, dove le frasi si complicano un pò, si
perde e si smarrisce: è la fascia definita pudicamente ”a rischio di
analfabetismo”. Si tratta di persone che non riescono a prendere un
giornale o a leggere un avviso al pubblico – anche se è scritto
bene, cosa tutta da vedere e verificare. E così siamo ai tre quarti
della popolazione...»
Non resta neppure il solito 30%...
«Resta un quarto neppure della popolazione su cui la
seconda delle due indagini infierisce, introducendo domande più
complesse, di problem solving, cioè di capacità di utilizzazione
delle capacità alfanumeriche dinanzi a problemi inediti. Così
facendo, si arriva alla conclusione che solo il 20% della
popolazione adulta italiana è in grado di orientarsi nella società
contemporanea: nella vita della società contemporanea, non nei suoi
problemi, beninteso».
Ma se si comparano i nostri dati con tre
grandi Paesi europei, ad esempio, Francia, Inghilterra e Germania?
«In queste prime comparazioni la Germania non era presente. Ma a
parte ciò resta il fatto che siamo al di sotto di qualsiasi
standard. Tra i Paesi considerati, bisogna arrivare allo Stato del
Nuevo Léon, in Messico, per trovarne uno più malmesso di noi. Con i
dati Ocse dell’anno venturo avremo un quadro comparativo molto più
articolato e vario: per ora siamo al penultimo posto nella
graduatoria...»
Tra i Paesi ricchi, intende?
«No, fra tutti i Paesi studiati. Da questi dati emergono chiaramente
sacche di regressione verso l’analfabetismo. Questo perché, per
quanto le scuole possano lavorare, i livelli di competenze delle
famiglie e più in generale della società adulta si riflettono
massicciamente sull’andamento scolastico dei figli. Quindi riuscire
a comprendere quanto sia rilevante il problema della scarsa
competenza alfanumerica degli adulti significa anche capire quanto
la nostra scuola lavora, per così dire, in salita. L’insegnante che
cerca di occuparsi del ragazzino o della ragazzina che viene da una
famiglia in cui mai sono entrati un libro o un giornale fa una
fatica spaventosa; così la scuola deve svolgere un compito immane.
Negli altri Paesi esistono degli eccellenti sistemi di educazione
permanente. Da noi siamo a zero. Insieme a Saverio Avveduto e ad
altri che, come capitava a me, avevano particolarmente a cuore
questo tema, riuscimmo a persuadere Luigi Berlinguer a introdurre
nella legge di riorganizzazione del sistema pubblico dell’istruzione
un articolo in cui si diceva che l’istruzione permanente degli
adulti doveva esserne parte integrante. Purtroppo però questo
articolo è poi rimasto lettera morta».