Scuola

Soldi, prof e risultati:
cosa rispondere all'Economist?

Tommaso Agasisti il Sussidiario 4.12.2012

Il report The Learning Curve: lessons in country performance in Education, prodotto dalla Intelligence Unit dell'Economist, contiene alcune riflessioni di policy decisive per la definizione delle azioni da intraprendere nei prossimi anni in campo educativo. Tali indicazioni non possono che essere prioritarie per il nostro Paese, il quale sta vivendo (ormai da troppi anni) una vera emergenza educativa, che trova riscontro in livelli di competenza e di apprendimento dei nostri studenti significativamente insufficienti rispetto a quelli di altri Paesi. 

I media italiani si sono concentrati nel mettere in evidenza le caratteristiche dei Paesi i cui sistemi scolastici sono ritenuti migliori, Finlandia e Corea del Sud, sottolineando che le comunanze risiedono nella qualità  dei docenti e nel prestigio sociale associato alla professione docente. Questa interpretazione è senz'altro corretta, e marca una radicale differenza con la realtà  italiana in cui i docenti sono mal retribuiti, demotivati e non valutati. Tuttavia, si tratta di una sola parte dell'intera storia; e se il sistema scolastico italiano si posiziona solamente 24simo nel ranking basato sui risultati (apprendimenti e titoli di studio), è necessario interrogarsi ad ampio raggio sulle cause di tale situazione.

Il merito del Rapporto è quello di mettere in luce diversi elementi di policy che sono associati (non necessariamente in un rapporto causa-effetto) ai risultati. Non solo: il punto di vista dichiarato è che la ricerca empirica e teorica non sia ancora pervenuta a convinzioni granitiche rispetto ai fattori che incidono positivamente sui risultati scolastici. L'educazione, d'altra parte, è un processo basato sulla libertà  e sulle abilità  delle persone coinvolte (studenti e docenti), pertanto è solo parzialmente "modellizzabile". Nondimeno, l'esperienza di molti Paesi oramai consente di considerare alcuni elementi di architettura del sistema scolastico come "abilitanti" per l'ottenimento di risultati migliori. Il rapporto ne cita, in particolare, tre.

1. Il primo riguarda la relazione tra input (risorse), processi e risultati. Decenni di ricerca economica nel settore dimostrano che il legame tra risorse investite nell'istruzione e risultati è, quantomeno, debole (se non assente). Le politiche basate sull'aumento degli investimenti tout court in istruzione si sono dimostrate fallimentari: sono esempi di queste la riduzione della dimensione media delle classi, o l'aumento delle retribuzioni dei docenti (fanno eccezioni quelle policy di retribuzione aggiuntiva dei docenti sulla base dei risultati dei loro studenti). 

2. Il secondo elemento è quello della cultura di un Paese rispetto al tema dell'istruzione. Il rapporto precisa che una cultura positiva in questo senso non è necessariamente solo quella presente tradizionalmente in alcuni Paesi (come Finlandia e Corea del Sud), ma puಠessere promossa con iniziative specifiche: viene citato, a titolo di esempio, il caso del reclutamento straordinario dei docenti attuato dal governo di Singapore, accompagnato dalla definizione di salari pari a quello di altre professionisti prestigiosi (ingegneri, medici, ecc.).

3. Il terzo fattore è legato alla promozione dell’autonomia delle scuole, e di una maggiore competizione tra queste in un regime di libertà di scelta. I casi illustrati dimostrano che, laddove la maggiore libertà di scelta si accompagna ad un adeguato sistema di informazioni per il pubblico e le famiglie (su caratteristiche e performance delle scuole), gli esiti sono di un miglioramento dei risultati, una maggiore soddisfazione delle famiglie, ed una riduzione dei costi.  

Quali indicazioni si possono trarre dalla lettura di questo Rapporto? È anzitutto sconcertante osservare come il dibattito sul sistema scolastico italiano sia molto lontano dai temi evidenziati. Governo e sindacati discutono solo di risorse (stanziamenti, monte ore di lezione, dimensione dei plessi e delle classi, organici, ecc.). I dibattiti politici, in tutti gli schieramenti, trascurano il tema dell’istruzione e della scuola, e i media ne parlano solamente in presenza di scandali e casi limite. Il tema della libertà di scelta e della parità scolastica, dopo una breve parentesi nei primi anni duemila, è tornato ad essere un tabú, e un terreno di mero scontro ideologico. L’autonomia delle scuole è molto (troppo) limitata, e si può esercitare solo su alcuni aspetti gestionali e di programmazione ancora marginali, mentre il ministero dell’Istruzione regolamenta ancora la maggior parte della vita degli istituti. La più importante risorsa per la qualità delle scuole (i docenti) continuano ad essere scelti centralmente attraverso concorsi, e si è definitivamente rinunciato a qualunque forma di valutazione delle loro attività. 

Alla luce dei contenuti del rapporto, non stupisce affatto che il sistema scolastico italiano sia ben lontano non da livelli di eccellenza, ma di sufficienza.

In questo quadro, vi sono segnali confortanti? A mio parere, sì. Primo: l’importante lavoro svolto dall’Invalsi per misurare i risultati di apprendimento in modo standardizzato: anno dopo anno, cresce nel mondo della scuola la consapevolezza della sfida legata all’entità dei gap di apprendimento tra aree geografiche, tra studenti italiani e stranieri, tra singole scuole, tra classi della stessa scuola. Secondo: la bozza di regolamento sul Sistema nazionale di valutazione (Snv), predisposta dal Miur, che si spera possa essere emanato prima della fine della legislatura: questo documento finalmente darà un quadro di riferimento per la valutazione interna ed esterna delle istituzioni scolastiche. Ed, infine, la passione e la competenza di quei docenti che, nonostante le mille difficoltà, non si arrendono e continuano a fare ogni giorno il mestiere più bello del mondo. 

Questi elementi positivi dovranno essere però sostenuti, nei prossimi mesi e anni, da una rinnovata attenzione al tema dell’educazione da parte della politica, della cultura e della società, a meno di non voler rinunciare, ancora una volta, a investire sulla leva strategica più importante per il rilancio economico e sociale del nostro Paese. 

 

 

 

La ormai endemica difficoltà  a raggiungere gli obiettivi di apprendimento (e di educazione) previsti per questa scuola pone quindi un interrogativo che investe, prima che i modi con cui alcune scelte sono state attuate, le ragioni per cui essa è stata fatta e quindi, inevitabilmente, i riferimenti politici e culturali assunti per perseguire gli obiettivi di uguaglianza e di parità  delle opportunità  che hanno rappresentato, e ancor oggi rappresentano, il riferimento inderogabile per le scelte di politica scolastica e formativa.

Alla domanda sul perché i risultati - formativi, educativi, di apprendimento - non hanno corrisposto alle attese la risposta data in un primo momento sottolinea il peso della presenza nella nuova scuola di troppi insegnanti ancora legati ad una mentalità  'vecchia'. In un secondo momento si sono attribuite le difficoltà  al fatto che gli obiettivi posti dovevano essere preceduti e seguiti da un percorso formativo ad essi coerente. L'estensione del modello pedagogico-didattico della scuola media alla scuola elementare e il tentativo incompiuto di usarla come riferimento per dare nuova forma anche alla scuola secondaria superiore hanno mostrato che questa pur interessante prospettiva non offriva una spiegazione adeguata delle difficoltà  emergenti.

Queste difficoltà  anzi incominciano ad apparire come una caratteristica 'stabile', dovute, si afferma però, all'avvento di nuove condizioni socio-culturali (ma questa scuola non è stata pensata anche per 'anticipare il cambiamento') e all'indebolirsi delle capacità  educative del contesto sociale e della famiglia in particolare (ma questa scuola non nasce anche per assumere una leadership educativa?). Proprio nel passaggio dalla scuola media alla scuola secondaria, il cui biennio iniziale era stato peraltro parzialmente adeguato alla nuova prospettiva, emergono con sempre maggior evidenza quei fenomeni, genericamente indicati come abbandono scolastico tanto esplicito quanto nascosto, che sempre pi๠caratterizzano la condizione della nostra scuola.

Una riflessione sulla scuola media a cinquant'anni dalla sua istituzione e sui problemi che la caratterizzano, apparentemente segnati da una sorta di 'eterogenesi dei fini', non può fermarsi alla superficie, alle forme concrete che ha assunto, alle scelte didattiche e tanto meno alla adeguatezza/inadeguatezza delle risorse; essa deve avere la forza di un ripensamento critico non delle ragioni per cui è nata ma dei riferimenti politici e culturali assunti cinquant'anni fa e che hanno determinato le 'forme' concrete  con cui quelle ragioni sono state fatte valere.

 

In nome della Costituzione, censure e riduzioni

Il primo riferimento riguarda le ragioni politiche, allora riassunte nella formula ‘piena attuazione della Costituzione’, obiettivo in sé assolutamente condivisibile.

Ma è proprio perché si vuole rimanere fedeli ad esso che si debbono fare alcune osservazioni.

Nel dibattito che porta alla legge del 1962 si esplicita infatti l’idea che prima della lettera va seguito lo spirito della Costituzione. E certamente il riferimento a questo testo normativo appare assolutamente parziale.

Chiave di lettura diventa infatti per la prima volta (ma moltissime altre seguiranno) l’Art. 3 nel passaggio in cui afferma:  “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”. In nome di questo anche quanto affermato all’Art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” viene preso in considerazione solo in un modo assolutamente parziale. Ancor più impressionante è come gli articoli riguardanti espressamente i temi dell’istruzione e dell’educazione – giudicati dal Costituente di tale rilevanza da essere raccolti in uno specifico titolo riguardante i ‘rapporti etico-sociali’ - siano volutamente ignorati (si pensi agli Artt. 30, “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, e 32: “La repubblica agevola … la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”) o interpretati in modo assolutamente unilaterale, assolutizzandone alcune espressioni e non prendendone in considerazione  la maggior parte. Questo è certamente avvenuto con gli Artt. 33 (“La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi” oltre al celebre “senza oneri per lo stato” che giganteggia nel senso comune) e 34 (“L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”) dove l’espressione ‘istruzione’ viene automaticamente ed esaurientemente fatta coincidere con la frequenza ad una scuola statale.

Punto decisivo che sostiene questa interpretazione della Costituzione è la attribuzione al solo ‘stato-persona’ del diritto-dovere di dare risposta alle istanze ricordate dall’Art. 3. Questa scelta verrà poi messa in discussione solo una volta, in occasione del primo tentativo, avvenuto nel 1964, di istituire la Scuola Materna statale e troverà una conferma piena nelle modalità con cui negli anni ’70 si legiferò anche per la attribuzione alle nascenti Regioni dei compiti loro assegnati dalla Costituzione.

 

Meno stato nel rapporto tra scuola e società

L’atteggiamento nei confronti del testo Costituzionale non è il solo che documenta il rivolgimento culturale le cui radici risalgono agli anni tra le due guerre e che, per quanto riguarda l’istruzione pubblica, è ben rappresentato nella ‘Carta della Scuola’ voluta da Bottai, emanata nel 1939 dopo un lungo periodo di gestazione che vide coinvolti tanto il mondo accademico quanto la scuola.

Nel definire il compito della scuola, di questa scuola espressione dello stato-persona, verso la società, le due prospettive ‘classiche’ – il riconoscimento del valore della tradizione da cui trae origine la cultura nazionale e il compito di introdurre l’allievo nelle condizioni di vita in cui sarà chiamato a collaborare alla vita sociale – sono sostituite dall’obiettivo dello ‘sviluppo integrale della persona’ e dalla ‘preparazione del giovane alla società verso cui il progresso porta’. Questi due riferimenti non possono certamente essere ignorati ma, in quanto assunti come esclusivi, comportano la deriva verso una concezione puramente psicologica dell’educazione scolastica, non più ancorata a dati di realtà ‘incontrabili’ ma alla categoria della pura ‘possibilità’ (dello studente e/o della società). Per quanto alta sia la probabilità, che una possibilità diventi realtà è però sempre una ipotesi. Ma anche quando essa si avverasse nei modi e nei tempi previsti, non si potrà mai presentare con quelle caratteristiche di realtà che sostengono un rapporto educativo non dominato dall’adulto e che per questo genera o l’appiattimento della persona del giovane o la sua fuga. Incardinare la scuola su un futuro che per quanto auspicabile, possibile, probabile non è ancora esistente determina un profondo mutamento anche nel rapporto tra la scuola e il contesto in cui la scuola opera: non più pensabile una effettiva partnership ma il rapporto dovrà, per necessità, essere unidirezionale, dalla scuola alla società. 

Con qualche forzatura, almeno rispetto alla consapevolezza con cui molti dei protagonisti di quegli anni hanno vissuto queste vicende, potremmo dire che in realtà si è voluto assegnare alla scuola un compito ‘rivoluzionario’ e che la allora ‘nuova’ scuola media unica dell’obbligo si pone come l’avanguardia di questo processo. Nell’affermarsi di questa prospettiva, di ‘divorzio’ tra scuola e società reale, può forse essere riconosciuta l’origine di una contraddizione che dovrebbe interrogarci: la coesistenza di una grande attesa sociale nei confronti della scuola, cui sono assegnati compiti sempre più numerosi e impegnativi con la continua diminuzione del credito che le viene attribuito.

 

Condizioni e fattori di un possibile cambiamento

Un secondo punto di attenzione riguarda i riferimenti culturali e metodologici fatti propri dalla scuola media (almeno in via ufficiale). Il riconoscimento della centralità dell’allievo (non a caso la scuola media è stata a lungo identificata con l’espressione di ‘scuola del preadolescente’) non ha trovato, nel definire obiettivi di apprendimento e aspetti didattici, un punto di equilibrio tra la dimensione della crescita personale e i contenuti dell’apprendimento che in certi momenti sembrano scivolare in secondo piano nelle responsabilità dell’insegnante,  in altri invece sembrano diventare giudici assoluti della didattica. Anche qui uno squilibrio che nel tempo si è fortemente incrementato e che ha contribuito a disorientare, prima che i giovani e le famiglie, gli stessi insegnanti.

Il rifiuto del tema della tradizione, certamente intesa come dato  cui fare riferimento critico e non come forma cui la scuola deve adattare, è certamente all’origine del crescere delle difficoltà degli alunni a comprendere il senso più profondo della loro esperienza scolastica. Analogamente il distacco dalla realtà in quanto concretamente determinata ha reso l’obiettivo dell’orientamento, che pure rappresenta uno degli obiettivi inderogabili della scuola media, una vera e propria chimera continuamente cercata e inseguita ma mai raggiunta, anzi, neppure sfiorata.

Mettere in luce gli aspetti ricordati non significa rinunciare agli obiettivi che hanno anche dato origine  a cambiamenti positivi (pensiamo solo all’apertura al diversamente abile, alla attenzione alle situazioni di marginalità) ma riconoscere, e accettare, che occorre superare la parzialità (ideologica e organizzativa) con cui si è inteso perseguirli.

Primo passaggio decisivo di questo percorso è promuovere una rinnovata alleanza tra i diversi contesti socio-culturali. Ciò significa dichiarare e consentire che quella educativa e dell’istruzione, è una ‘responsabilità diffusa’ cui la scuola è chiamata a rispondere accettando una partnership che non significa divisione paritetica di ciascuna responsabilità tra i diversi soggetti ma accettare di ricoprire, accanto a ruoli ‘dominanti’, anche posizioni ‘subalterne’.

Occorre che la scuola rinunci alla centralità sociale conseguenza dalla sua identificazione con lo stato o ottenuta attraverso stratagemmi come l’omologazione di tutto il sistema dell’istruzione al modello liceale ritenuto di per se stesso prestigioso. Riacquisire prestigio sociale e forse anche qualche maggiore soddisfazione economica dipenderà in primo luogo dalla capacità della scuola (e quindi degli insegnanti) di dare risposte effettive ai problemi educativi e di apprendimento delle giovani generazioni.

Un secondo passaggio, altrettanto decisivo, consiste nel saper assumere come riferimento per le scelte didattiche uno sguardo che aiuti sì i giovani a guardare al loro futuro come percorso personale ricordando però che una persona non può ri-conoscersi (riconoscere se stesso) se non attraverso un rapporto consapevole con il contesto cui è vitalmente connesso e che ha un futuro in quanto ha un passato che deve essere conosciuto per poter essere compreso e vissuto oggi.

Solo in ciò può trovare fondamento un ‘patto educativo’ riconoscibile dal giovane e che, per questo, gli permetterà di recuperare un atteggiamento di responsabilità non formale rispetto ai compiti insiti nella proposta della scuola.

Solo accettando di ripensare le scelte, compiute da generazioni ormai passate in un mondo molto diverso da quello che abbiamo di fronte, è pensabile affrontare il compito di un cambiamento della scuola media (e non solo) che proponga alle nuove generazioni, di allievi e di insegnanti, una prospettiva positiva perché in grado di rispondere alle domande ieri come oggi presenti nell’uomo.