Il riciclo e il rischio di fumo di Raffaele Iosa, ScuolaOggi 2.4.2012 Ho letto solo in queste ore un (po' frettoloso) articolo di Tiriticco con una sua proposta di riordino dei cicli 2+5+5+3, per la verità poco articolata. Ho poi letto la risposta pungente di Cinzia Mion in difesa accorata della scuola dell'infanzia triennale e solo un altro articolo di Stefanel pro-Mion. Colpisce il silenzio di tutti i siti sulla questione sollevata da Tiriticco. Ricordo le bacchettate al povero Marco Rossi Doria quando ha sussurato un 3+8+4, considerato traditore della patria di sinistra. Colpisce che nessuno abbia proposto uno di quei soliti mini-referendum che fa oggi chic-interattivo. Colpisce che Tiriticco abbia esposto la sua ipotesi nel PD, partito di cui non è nota l'unità politica neppure sulla fiera del ciclamino di Pozzolo di Sotto. Tace Sel e l'immaginifico Niky che ha sempre una parola per tutto. Vedessimo la foto di Vasto convertita in discussione sul riordino dei cicli scolastici, ci verrebbe paura: almeno 22 proposte diverse, ognuna considerante l'altra "traditrice". Marginalità dei tre autori sul "chi conta davvero"? Inutilità della discussione sul riordino dei cicli per stanchezza bio-politica? Il brutto sta che una qualsiasi tesi, anche quelle non condivise, durano un soffio e hanno il peso del fumo di un cerino, in mezzo alla marea di parole che Internet permette con una sfornata logorroica, della quale sono frastornato e che mi rendono più caro il silenzio, la riflessione riflessa, la parola solo ogni tanto quando serve. In questo caso serve, anzi sono costretto a replicare perchè considero il caso non-caso accaduto un esempio emblematico della mancanza di profondità in cui si pensa di poter parlare di qualcosa di serio. E questo "serio" non riguarda tanto il riordino dei cicli, nè la questione degli organici, nè la questione della scuola media da salvare-ammazzare. Riguarda la nostra idea dei bambini, il bene più prezioso che abbiamo. Riguarda almeno ogni tanto il dovere di partire dai bambini e dalla loro attuale condizione per preparare il loro futuro migliore. Basterebbe mettersi insieme e leggere umilmente tre ricerche appena uscite, dall'Istat, dall'Eurispes, dalla società dei pediatri italiani per riflettere un po' sui nostri figli e trarne alcuni SOS di cui il recente dominio dell'adultismo impedisce di parlare. Certo, si tratta di ricerche "extra" scuola, non sono assiomi, ma accidenti se ci danno qualche doverosa sberla! Ne vedo due che sono utili a questa discussione altrimenti fumosa e senza arrosto sull'architettura futura della scuola: la prima si chiama "precocismo", la seconda "disorientamento", cose che accadono ai nostri figli-nipoti nella vita moderna, di cui la scuola può essere medicina o veleno. Il precocismo riguarda i bambini da 3 a 6 anni cioè la scuola dell'infanzia, il disorientamento la cosiddetta "scuola secondaria". E tanti dati ci raccontano che non è un bel dire. Pur condividendo pienamente la critica di Cinzia Mion sull'ipotesi di Tiriticco di tagliare un anno di scuola dell'infanzia, a me non basta replicare che questa è un "gioiello di famiglia". Anche se fosse meno brillante, la questione non è sulla scuola ma sui bambini e gli effetti che una scuola o un'altra avrà su di loro. Facciamo sempre meno figli, li vogliamo adulti subito, li roviniamo a scuola già che basta con un precocismo dannoso in molti modi (dalle depressioni, alle dislessie, alla selezione, alla fobia scolare, all'autismo informatico, ecc...), li scolarizziamo e socializziamo troppo perchè abbiamo definitivamente soppresso la "società dei bambini". E poi ci aspettiamo adulti ragionevoli, felici, amichevoli, competenti? Ma non vedete come stanno i bambini, infagottati con vestiti carnevaleschi ridicoli, piccole bètes savants che scimmiottano per genitori allupati di adultismo e pubblicitari assatanati di lolitismo? La malattia sta lì: nell'aver scombussolato la natura, nell'aver sottratto ai bambini le tappe naturali del farsi persona, accelerando tutto, e pensando sadicamente di fare loro del bene. Anzi di più: di aver valorizzato "l'inesauribile plasticità del bambino" come fonte da cui estrarre tutto subito. Lo chiede la competizione mondiale, ovviamente l'Europa, certamente l'OCSE. Ed anche Sabrina Ferrilli, di cui è sempre piacevole conoscere la colta opinione. Purtroppo devo dire a tutti gli adultisti del pianeta che "natura non facit saltus". Anzi fa Rupe Tarpea. Qualche gocciolina di veleno per loro. Stefanel dice, ad esempio, che non vi sono elementi negativi sugli anticipi. Ma che fonti ha per dirlo? Io che le scuole le vedo (tante e per lavoro) potrei per esempio raccontare che i bambini cosiddetti DSA sono il doppio tra gli anticipatari che tra i "normali". Dato che dimostrerebbe come la dislessia non è quella cosa complicata degli psicologi neo-cognitivisti molto lobbisti, ma forse un'interazione sbagliata tra tappa della vita e contatto con il mondo di Gutenberg. Certo, molti bambini leggono prima, ma è noto che da grandi il rapporto tra pensiero e parola è spesso sballato. Infatti c'è chi parla troppo senza capire quello che dice, e c'è chi pensa senza trovare la parole per dire i pensieri. Il nostro caro Vigotsky ci insegnerebbe che la mancanza di rapporto tra pensiero e parola crea "stupidità", altro che neo-competenze! Per esempio, credo sia indispensabile prima di tutto saper parlare bene e pensare bene nella propria lingua madre, perchè solo lì significati e significanti si uniscono per la vita "vera" (come ci insegnava il caro Comenio), ma noi invece a fare inglese a bambini balbettanti, feste-musical perchè fa chic, anzi serve a vincere la sfida della globalizzazione. La mia tesi è quindi molto secca: c'è bisogno di una profonda disintossicazione del precocismo soi disant pedagogico (e dell'adultismo sociale) con molte azioni, di cui la scuola dell'infanzia può essere un ottimo presidio pedagogico, se non diventa invece serva sciocca di questa sgomenta post-modernità. Ridurla a due anni sarebbe la fine. Ci vuole invece tempo, e il tempo apparentemente "perso" tra 3 e 6 anni a pasticciare, a giocare per gli affari propri, a sognare lento e a sapersi sorprendere a "pensare alle parole" sarà un tempo che ci tornerà utile ad essere da adulti più profondi, più capaci di parlare e di capire, più umani e meno umanoidi. Penso che convenga dare tempo al tempo dei bambini come "cura di base" di una società che deve ripensarsi più saggia (non più sapiente), più sobria (altrimenti a furia di consumismo arriveremo al cannibalismo). Per me non si tratta di nostalgia pasoliniana, ma l'emergenza politica prioritaria sull'infanzia. Quindi: un po' di visione generale, per dio, altrimenti il dito-scuola ci renderà impossibile vedere la luna-futuro dei nostri figli. E non è questo il vero tema della "crisi" attuale? Dove stiamo andando? Altrettanto posso dire sul disorientamento. Per me 13 anni di scolarità sono troppi, è solo un cascame sindacale di scarso valore culturale. E non c'entra l'Europa, c'entra anche qui cosa vogliamo dai nostri figli. Che se imparano poco e male in 13 anni non è per la durata, ma per il modo e i salti in cui si insegna in Italia. Ma qui c'è un problema per me molto più serio delle paturnie sindacali. Dunque torniamo al disorientamento: sto ragionando nella mia regione sul dimensionamento della scuola superiore, faccio riunioni con il mondo economico e sociale. Io che vengo dalle elementari sono sorpreso dall'assurdo che incontro: nessuno sa dire una mezza parola seria sul rapporto tra formazione in adolescenza e mercato del lavoro in età adulta neppure a distanza di 10 anni. L'asimmetria tra sistema scolastico effettivo e sistema economico e sociale attuale è totale. A questo punto una scuola vale l'altra. Qui è la vera crisi della formazione adolescenziale, non in quanti anni dura, ma nell'aver perso definitivamente la sua "vocazione preparatoria" alla vita adulta. Al massimo la scelta può essere la risposta a incerti gusti giovanili (a 13 anni!), agli amici dove vanno, alla distanza chilometrica, al caso appunto. La crisi economica amplifica il senso di inutilità. Si dice: che sia almeno "formativa"! Ma chi, la scuola superiore italiana attuale? Ma quando mai! E dove andrebbe il mito delle competenze? Come si farebbe se non si seleziona più? E come si farebbe a tenere fino a 18 anni burini antropologicamente negati per le virtuose cime dantesche? C'è un grande rito collettivo chiamato "scuola superiore" che con inerzia entra nel 2.000 senza aver un segno profondo di senso, non ha parole per il futuro, finge se stesso in un adultismo autoreferenziale di adulti piegati dal brutto presente e dalle loro fisime ideologiche del momento. Si veda al proposito l'avv. Gelmini idolatrice del merito per i ricchi che il futuro ce l'hanno già pronto. Non è difficile nascere figli di ricchi! E' più difficile nascere figlio di un tranviere e di una contadina e diventare dirigente dello Stato! Ma oggi è ancora possibile? E quando mai, oggi oltre alla crisi economica il familismo politico-clientelare ha tagliato anche il merito "normale", quello che c'è quando serve, quando non ammazza gli altri, è anzi un dono agli altri. Neppure per l'eguaglianza delle opportunità sembra quindi più utile andare a scuola! C'è dunque ben altro che la questione 12 o 13 anni di scolarità! Io ho fatto le magistrali e a 18 anni ero maestro. Altri anni, si dirà, quando i 18 erano anni belli. Ma anche quando era bello essere giovani adulti accolti nel mondo! Oggi, la scuola riavrebbe senso se ci fosse una società pronta ad accogliere i giovani in modo maturo, capace di dare loro futuro credibile, ma anche una società che li "obblighi" ad esempio a dare un anno agli altri (come giustamente propone Cinzia) e non solo a se stessi. Una scuola che ri-pensi al futuro senza fumo, anche con realismo, ma soprattutto con speranza. Che è data da idee solide e serie, sempre più rare. Ma qui si parla di pedagogia politica, e mi pare troppo sulla discussione dei tre nostri amici, che almeno ci provano a pensare al domani, ma è fuori luogo per gran parte degli italiani. Presi dal fumo del presente, perchè l'arrosto è scomparso e l'anoressia di futuro ci porta a vedere solo noi stessi allo specchio, non i nostri figli tra 20 anni. |