Nativi digitali o “geni” Luca Tizzano il Sussidiario 21.4.2012 Caro direttore, in qualità di giovane, e forse un po’ sprovveduto, insegnante mi permetto di intervenire con alcune riflessioni a proposito del dibattito che il Suo giornale sta ospitando sulla digitalizzazione della scuola (articoli di Cereda e Foschi pubblicati negli ultimi giorni). La recente direttiva sui libri di testo, con la quale il Ministero prescrive che dal prossimo anno scolastico scompaiano i manuali esclusivamente cartacei a favore di strumenti digitali o scaricabili da internet, ha contribuito a porre nuovamente all’attenzione del mondo della scuola il problema dell’utilizzo delle cosiddette nuove (ma forse ormai attempate!) tecnologie. Un aspetto decisivo della questione appare spesso trascurato o poco approfondito per ragioni di convenienza, impazienza, forse superficialità: come questi nuovi strumenti stanno influenzando e cambiando le strutture cognitive nostre e degli studenti? E in che modo internet, smartphone, tablet… possono essere usati come utili strumenti didattici, e non come fine dell’insegnamento? La recente indagine sull’informatizzazione delle scuole nazionali ha evidenziato un lento ma significativo progresso nell’uso dei nuovi strumenti tecnologici da parte dei principali istituti italiani. Certo sempre più avanzati sono i nostri ragazzi, che quasi all’unanimità sembrano padroneggiare la tecnologia senza problemi. Ma è proprio vero che i giovani sono tecnologicamente alfabetizzati? Siamo certi sappiano sfruttare le potenzialità dei nuovi strumenti, senza limitarsi ad usarli privati degli aspetti più interessanti? La nostra vecchia generazione cartacea (ironia della sorte che a dirlo sia un “giovane” ventottenne!) a parole sembra convinta che l’utilizzo del web sia al servizio della conoscenza personale e non la si possa sostituire (come invece pensano i teenagers); ma saprebbe motivare questo giudizio con ragioni adeguate, senza cadere nel conservatorismo o nell’anacronismo? E soprattutto, è in grado di sfruttare internet al servizio della crescita umana, quindi culturale, di ogni ragazzo, vero scopo di ogni percorso educativo? Ammetto di rimanere spesso esterrefatto nel constatare l’analfabetismo tecnologico dei miei studenti di fronte a richieste anche banali: cambiare il layout di un foglio word, formattare un computer, installare nuovi software, usare un file excel in tutte le numerose potenzialità (e limiti) di calcolo che offre… Eppure facebook è il loro migliore amico, e la chat il nuovo quotidiano! D’altra parte mi domando: quanti sono gli insegnanti che sanno muoversi con disinvoltura in queste tecnologie, e soprattutto sono stati formati nell’utilizzarle in modo cosciente, fino a scoprirne le principali potenzialità didattiche? E ancora: come la digitalizzazione del sapere sta cambiando il nostro modo di percepire il mondo che ci circonda, i rapporti interpersonali, il ragionamento e la struttura del pensiero? Ci troviamo infatti di fronte la prima generazione della storia che sta crescendo con l’iphone a portata di mano sin dai primi vagiti, e che si sta convincendo che la cultura coincide con il multi-tasking o con l’avere tutto a portata di click. Salvo poi constatare di non essere più in grado di svolgere una ricerca che non sia il copia-incolla da Wikipedia, o di guardare un cielo stellato senza l’aiuto di una delle migliaia di app a disposizione. Sfogliare le pagine di un vocabolario cartaceo per cercare la parola di cui si necessita è cognitivamente identico a scriverla su google e schiacciare invio? Trasporre un testo da una lingua ad un’altra (come mostra il dibattito sulla classicità ospitato dal Suo quotidiano) struttura il pensiero esattamente come farlo, anche correttamente, con google translator o recuperando una delle decine di traduzioni presenti sul web? Come questo nuovo modo di studiare, insegnare, imparare sta influenzando, cambiando, strutturando noi stessi e la nostra ragione? In un mondo nel quale il sapere è costantemente a portata di click, quale il valore di continuare a studiare, approfondire, riflettere personalmente sulla letteratura, risolvere esercizi di matematica, scontrarsi con fatiche, paure, insuccessi? Non si tratta tanto, o solo, di un problema di alfabetizzazione o progresso, quanto piuttosto di comprensione e approfondimento della reale incidenza antropologica, anche positiva, che un certo tipo di cambiamenti sta introducendo. E che un osservatore non troppo distratto sta già empiricamente notando (esistono ancora i famosi “bigliettini” per copiare durante le verifiche o l’eroico compagno di banco pronto a “rischiare la pelle” per passare il compito? O sta subentrando una cultura del “fai da te” tecnologico, che ha nell’iphone lo strumento privilegiato per copiare “da soli” addirittura durante le verifiche?). E ancora: è ragionevole entrare in classe da un giorno all’altro con l’ipad o con la Lim lasciando inalterato il proprio modo di insegnare rispetto a quando si utilizzava il libro cartaceo o ci si sporcava con il gesso? Se così fosse, quale il reale vantaggio nell’utilizzo delle nuove tecnologie? Altrimenti è necessario che qualcuno si occupi di formare i docenti a sfruttare questi strumenti, per capire anche come possano lavorare al servizio di una proposta didattica adeguata. Il web non può essere il fine di un percorso educativo, semmai uno strumento per permettere la crescita di chi lo utilizza. Ecco perché il primo modo di usare la tecnologia a scuola è rendere sempre più consapevoli docenti e addetti ai lavori: non c’è in gioco la decisione di approvare o demonizzare l’utilizzo di questi nuovi strumenti, quanto quella, ben più interessante e stimolante, di accettare la sfida conoscitiva che essi ci lanciano. E che solo un’osservazione attenta e libera di quanto sta accadendo, uno studio approfondito e al passo dei tempi sui nuovi mezzi e un aggiornamento significativo dei nostri insegnanti può contribuire a sviluppare. |