La distanza di Matisse e la nostra scuola di Pietro Raboni Il Fatto Quotidiano, 13.4.2012 C’è un valore aggiunto nella mostra dedicata a Matisse al Centre Pompidou di Parigi (Matisse. Paires et séries.Fino al 18 giugno); un valore dato dall’ intelligente scelta del curatore che ha privilegiato le opere seriali o accoppiate mostrando un aspetto “intimo”dell’autore, colto nel particolare momento, nei momenti, della scelta dell’inquadratura del soggetto. Vediamo uno scorcio della Senna a Pont Saint Denis; lo rivediamo accanto, ma da un po’ più indietro. Prima era “solo” Parigi, ora, di lato, scorgiamo il bordo della finestra, la costa della persiana. Matisse ha fatto un passo indietro nella sua stanza, ha spostato di qualche centimetro il punto di vista. Per discorrere proficuamente di qualunque problema occorre appunto “inquadrarlo”; e per inquadrarlo bisogna preliminarmente stabilire la distanza da cui lo si vuole osservare. Ora mi chiedo: ma da che distanza siderale viene osservata la scuola quando si partoriscono decisioni come quella dell’ex ministro Gelmini di fissare la quota del 30 per cento di stranieri in classe? Siamo sicuramente dalle parti di una galassia primordiale, in “quegli ancor più senz’alcun fin remoti/nodi di stelle” che Leopardi ricorda descrivendo la dabbenaggine umana. Che io sappia questa sconsiderata norma, che ha poi trovato le giuste resistenze e interpretazioni più “bonarie” da parte di chi la doveva applicare, ha mietuto una sola vittima: a una scuola elementare di Milano è stata negata una prima in virtù proprio del decreto suddetto. E’ la scuola di via Paravia, una scuola qualunque per tutti, ma non per me: è la scuola dove ho fatto le elementari, è la scuola del mio maestro Luciani (che ci faceva ascoltare musica classica in classe portandosi dietro un grosso giradischi e che, contemporaneamente, ma lo scoprii dopo, insegnava all’Università Cattolica filologia latina); è una scuola confortevole, aule grandi con finestre sul giardino, alberi attorno…E’ una scuola nata per servire il quartiere popolare che sorge di fronte, che risale agli anni trenta, che ai miei tempi era prevalentemente abitato da immigrati italiani e che oggi è prevalentemente abitato da immigrati stranieri. Ai figli di questi “stranieri”, di sei anni e dunque tutti, o quasi, nati in Italia, è stato negato l’accesso alla scuola di via Paravia, la loro scuola. Sono stati smistati, spostati un po’ più il là… Più ci penso, più la cosa mi sembra di una gravità assoluta. Il principale luogo di accoglienza, integrazione e formazione che gli italiani possiedono, cioè la scuola, trasformato in simbolo di disintegrazione, di rifiuto. Non conosco gli ultimi sviluppi (pare che sia a rischio anche la classe del prossimo anno) ma mi auguro che il buon Pisapia si accorga che ne va del buon nome della città. E’ comunque un esempio di come si interviene sulla scuola, della distanza da cui la si osserva; non è un caso che l’ufficio scolastico di una volta oggi sia diventato l’osservatorio scolastico. Mi pare di vederli: attaccati a grandi telescopi, mettere a fuoco tutte le scuole, accorpare questa a quella, togliere qualche preside, tagliare qualche sezione, modificare programmi… E’ quanto mai urgente sottrarre la scuola alla propaganda e al baratto politico e garantirle il necessario sostegno in questo difficile momento di trasformazione della società italiana. Per questo è necessario che le istituzioni riducano drasticamente la distanza, l’abisso di cui si è detto; ed è forse anche ora che il mondo della scuola si mostri più propositivo e, come dire, più orgoglioso del proprio ruolo. Entro in prima B, stamattina. Ventotto alunni. Per la prima volta conto i cognomi stranieri: sono diciassette. La Gelmini non è arrivata fin qui. La mia vivacissima e variopinta classe è salva. |