I compiti a casa, doveri e valori
Come non bastasse, ora si vuol prescrivere a
scuole Giorgio Israel Il Messaggero, 2.4.2012
CI SENTIAMO ripetere tutti i giorni che, per superare la crisi e far
ripartire il Paese, occorre mettere in campo un rinnovato senso di
responsabilità e la capacità di fare sacrifici. Del resto, che cosa
ispira la riforma delle pensioni, la politica fiscale e la riforma
del lavoro se non il principio che occorre lavorare di più a fronte
di minori redditi? Si ribadisce che la società – in definitiva, chi
lavora sodo con senso di responsabilità – non può più sovvenzionare
pensionati cinquantenni ed evasori fiscali. Difatti, non è naturale passare ore in un ufficio, in una fabbrica o in un’aula: è una costrizione che allenarsi allo sforzo e alla concentrazione può, paradossalmente, trasformare in qualcosa di stimolante e persino di piacevole. La scuola ha sempre avuto la funzione di fornire tale allenamento, che è rappresentato non soltanto dalle ore passate con l’insegnante e i compagni di classe, ma dal lavoro a casa, in cui ci si confronta individualmente, faccia a faccia con sé stessi, con i risultati del lavoro fatto. È qualcosa che non soltanto stimola il senso di responsabilità, e addestra allo sforzo inerente a qualsiasi attività lavorativa; ma è la via maestra per realizzare l’obbiettivo tanto proclamato dai pedagogisti «moderni»: la capacità di «saper fare», di applicare le nozioni apprese, che non si stimola e non si verifica nelle attività collettive che spesso nascondono le magagne in un calderone indistinto. Di qui il ruolo dei «compiti a casa» di cui tanto si discute in questi giorni.
Tutto è nato da un appello di genitori francesi che si scagliano
contro i compiti a casa. L’idea che i «compiti fanno male» è stata
ripresa qui da alcune associazioni con svariati argomenti: i ragazzi
sono stressati, le famiglie non ce la fanno a reggerne lo stress, i
compiti impediscono le attività alternative, tutto deve essere fatto
a scuola, e così via. È un atteggiamento da tempo diffuso: la scuola
deve risolvere i problemi e non porli, garantire il successo
formativo, la serenità dei ragazzi, deve essere un servizio per la
famiglia giocoso e di intrattenimento. È una veduta che converge con
quella di certa pedagogia secondo cui lo studio va ridotto a
un’attività ludica. Certe reazioni hanno forse lasciato credere al ministro che simili propositi siano molto popolari, ma forse egli non sa quanto sconcerto e avvilimento abbiano provocato in tantissime famiglie che si battono quotidianamente – e contro mille ostacoli – per educare i figli al senso di responsabilità (che è anche stimolato dall’obbligo di fare i compiti), alla capacità di applicarsi, a non disperdere i pomeriggi bighellonando nell’ozio, ad allenarsi allo sforzo. È curioso. Quando pensiamo all’allenamento di un atleta troviamo naturale che egli passi ore ed ore a concentrarsi faticosamente sulla tecnica innaturale del salto in alto dorsale; e ammiriamo nel suo sguardo la concentrazione spasmodica su sé stesso (nella propria «cameretta») quando tenta di superare una prova. Troveremmo ridicoli degli atleti che si addestrino salterellando su un prato, tutti insieme, e senza metodo. E invece per lo studio ormai sembra naturale pensare il contrario. Di certo, il ministro Profumo avrà studiato nella sua cameretta, per dire, l’elettrodinamica, e avrà risolto al chiuso tanti problemi per verificare la sua comprensione e il suo «saper fare» e non può credere che un impegno del genere possa essere sostituito da «progetti» collettivi all’aperto. Anche un fautore dei «metodi attivi» come Lucio Lombardo Radice metteva in guardia contro l’idea di «una scuola in cui è sempre domenica», ridotta «a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale» a scapito di «un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per la acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato: lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere». Colpisce anche che, mentre si parla continuamente di autonomia scolastica e di ridare dignità alla funzione docente, si avanzi un dirigismo soffocante che riduce gli insegnanti a burocrati. Non è consono a una visione liberale indicare soltanto gli obbiettivi ineliminabili nell’istruzione e poi lasciare a scuole e docenti piena libertà metodologica? Qualcuno darà più compiti, altri meno o niente: il confronto tra i risultati dirà chi ha operato meglio (non dovrebbe consistere in questo la valutazione?). E invece no. Il ministero sforna a getto continuo metodologie di insegnamento e ora appresta un modello nazionale per la certificazione delle competenze con annesse linee guida e parla addirittura di una campagna pluriennale di rieducazione autoritaria delle menti dei docenti alla didattica per competenze. Come non bastasse, ora si vuol prescrivere a scuole e insegnanti se e quanti compiti a casa debbano assegnare. C’è da temere che abbia ragione Piero Ostellino quando dice che in Italia non si riesce altro che a passare da un dirigismo all’altro. Ed è tanto più sconcertante che un governo che tanto chiede agli italiani in termini di responsabilità, di sacrifici, di rigore, di impegno lavorativo, sulla scuola invece proponga il dirigismo del faticare il meno possibile. Si potrebbero citare tanti casi come quello del ragazzo extracomunitario di origine sudamericana che, posto di fronte alla scelta della lingua a scuola, ha detto: «Lo spagnolo no, perché per me sarebbe troppo facile». Siamo ineluttabilmente destinati alla decadenza? Ci ripensi, signor ministro. |