Direzione didattica di Pavone Canavese Ce n'est qu'un début di Marina Boscaino Pavone Risorse, 2.4.2012 Mi sembrano significativi – ed anche un po’ paradossali– il clamore, lo scambio, l’attenzione che ha suscitato la notizia che in Francia si sia inaugurata una riflessione a proposito del possibile annullamento dei compiti a casa.
Il 15 marzo i genitori dei ragazzi delle elementari, cooptati dalla
Fcpe, la principale associazione di genitori francesi, e dall’Institut
coopératif de l’école moderne, hanno lanciato un appello, supportato
da un blog, per invitare alla protesta contro i compiti a casa. Tra
le affermazioni dei genitori: “O i ragazzi hanno capito la lezione
in classe e allora è inutile perdere tempo a casa; o non l’hanno
capita, ma non la capiranno senza l’aiuto di un insegnante”. La
richiesta pone in luce anche un problema di pari opportunità: i
genitori sostengono che i compiti a casa, oltre a causare liti in
famiglia, ampliano le diseguaglianze tra i bambini, molti dei quali
non hanno chi possa seguirli, né strumenti adeguati.
Il fatto stimola alcune riflessioni, la prima generale: il tema è ciclico; si ripresenta ogni tanto e ogni volta le reazioni sono numerose. A me – rispetto all’ipotesi di sottolineare problematiche oggi presenti nella scuola – sembra un argomento abbastanza irrilevante, almeno a considerare le motivazioni che vengono addotte dalla platea dei non addetti ai lavori. E non sto parlando delle problematiche di sistema, delle politiche scolastiche, delle grandi assenze che continuano a caratterizzare gli interventi (quali?) sulla scuola dello Stato. Sto parlando di pratiche quotidiane, di scuola di tutti i giorni, di quella nella quale io – voi – da domani entreremo, come tutti i giorni, e che dovremo contribuire a far funzionare. Inoltre si tratta di un argomento strettamente connesso alla libertà di insegnamento, alle pratiche didattiche, alle impostazioni pedagogiche che ciascuno di noi, nella propria autonomia individuale, decide di mettere in atto. Ho assistito, nel corso della mia carriera, nel percorso scolastico dei miei figli, ad un uso talmente differenziato dei compiti a casa, a visioni talmente alternative della funzione da assegnare a questa pratica, a quantità talmente disomogenee di carichi di lavoro che non si può parlare del tema in generale, senza entrare nelle singole specificità. Senza ignorare che, come in tutti i campi, esistono delle interpretazioni esasperate, in un senso o in altro e che non è utile generalizzare. Le risposte che sono state fornite sul tema a “Repubblica” e ad altre testate da intervistati istituzionali sono basate su un buon senso che – francamente – non dice nulla di nuovo. Ecco una silloge dei commenti del ministro Profumo: che non fa altro che ribadire la sua ormai tradizionale tendenza a riportare qualsiasi argomento al suo cavallo di battaglia (per ora, peraltro, solo formale) delle tecnologie; trincerato dietro la visione provvidenzialistica della modernità, non dicendo niente di significativo e conferma che il governo dei tecnici ha affidato alla scuola ad uno stimatissimo professore universitario che, però, dal nostro punto di vista tutto è meno che “tecnico”. Ma che non è nemmeno un “politico”. E che forse un contatto forse più ravvicinato di una moglie insegnante con un sistema complesso come quello dell’educazione e dell’istruzione pubblica gioverebbero alla comprensione dei problemi: “Oggi i ragazzi ricevono molti stimoli anche dall´ambiente extrascolastico, e quindi deve cambiare la struttura dei compiti e delle lezioni» «Se oggi si dà una versione di greco o latino, mi racconta mia moglie che è insegnante, quasi sempre la traduzione si trova su internet. C´è anche un sito specializzato, basta inserire tre parole… Insomma, dobbiamo essere più “smart” dei ragazzi». Più furbi, certo. Ma forse sarebbe il caso di inaugurare una seria riflessione sull’uso consapevole delle tecnologie; e, prima ancora, forse, sul senso della traduzione dal latino e dal greco, sic stantibus rebus…; «Un po´ più di complessità, un po´ più di connettività, lavoro da fare in parte insieme, in parte ognuno a casa sua, anche con orari più flessibili», concludendo poi, che «Una parte di compiti ci vuole perché il fatto di essere impegnati direttamente rende i ragazzi responsabili e li aiuta a maturare». Però ci vorrebbero anche «delle attività un po´ più libere, con una base logica forte, con capacità di sintesi e di analisi, magari lavorando insieme». E ancora: «Una versione di latino può essere anche copiata da internet. Credo sia più interessante far lavorare i ragazzi con strumenti logico-deduttivi. O farli uscire da casa per seguire un progetto organizzato dalla scuola. Sì, sono d’accordo nel dare meno compiti a casa». Lascio a ciascun lettore l’interpretazione delle ricadute concrete di queste affermazioni (compreso “il progetto organizzato dalla scuola”…). A me, sinceramente, sfuggono. Mario Rusconi, vicepresidente dell´Associazione Nazionale Presidi, sottolinea che “per affrontare questa rivoluzione bisogna innanzitutto formare gli insegnanti”. «Si potrebbero fare meno compiti a casa se ci fossero più lezioni interattive, ci sono alcuni insegnanti che le fanno, nel mio liceo, il Newton di Roma, ci sono professori che fanno lezione in inglese ma è tutto lasciato alla volontà individuale. Non c´è l´obbligo di aggiornamento e se uno vuole può rimanere sempre con i metodi di quando ha iniziato. È questo il punto da aggredire: la formazione degli insegnanti». Già, la formazione degli insegnanti. Per la quale gli investimenti continuano ad essere nulli, in una implicita pretesa di società, poltica e amministrazione di una autoformazione opzionale, o di sperimentazioni improvvisate da bricoleurs della didattica, nei quali molti di noi si sono trasformati. Il problema dei compiti a casa investe – se lo svincoliamo dalle interpretazioni patologiche che una minoranza di insegnanti ne danno – aspetti didattici, pedagogici, cognitivi, relazionali. È una delle cartine di tornasole del modo di impostare e di interpretare la scuola. Interroga, insomma, sul senso dell’insegnare e dell’apprendere. Sollecita ad una preventiva revisione non solo degli stili di apprendimento, ma di elementi costitutivi dell’esperienza scolastica, dal tempo-scuola, alla laborialità, alla ricerca-azione, alla mediazione e alla relazione educativa, alla revisione dei paradigmi epistemologici delle discipline, che interpreti in maniera culturalmente efficace i cambiamenti che ci sono stati fuori (rispetto ai quali la scuola, nonostante gli sforzi, ha mantenuto un certo immobilismo) e riconsegni un modello di insegnamento che favorisca davvero apprendimento e successo formativo. La discussione in sé è poco interessante e scarsamente appassionante. Sarebbe invece importante prendere spunto da questa piccola polemica e dal tam tam di voci, commenti, interventi che si registrano sui vari blog e anche tra i gruppi di insegnanti (alcuni acuti e importanti, motivati e riflessivi, tra sostenitori e detrattori) per inaugurare uno studio serio sulle connessioni che ho provato a mettere in luce. E sulla valutazione delle conseguenze concrete (quando parliamo di tempi distesi, di progetti organizzati, di formazione, ci sono dei costi da computare). Ma – è chiaro – non è questo tempo che ci potrà dare risposte. O, almeno, aiutarci a capire. |