SCUOLA

Nella "guerra" dei compiti a casa,
i prof che cosa fanno?

Giuliana Sandrone il Sussidiario 7.4.2012

Pensavo fosse un vezzo tutto italiano: di tanto in tanto (di solito con l’inizio delle vacanze estive) scoppia la questione “compiti a casa” sì, “compiti a casa” no, con successivo dibattito giornalistico, chiamata in campo di opinionisti ed esperti, ...a settembre ricomincia la scuola... e tutto come prima. Questa volta, invece, è arrivata dalla Francia la notizia che un’associazione di genitori ha proclamato un vero e proprio “sciopero” dei genitori, vale a dire il rifiuto da parte delle famiglie di aiutare i figli nello svolgimento dei compiti a casa. E se accadesse anche da noi?

Impostare il problema sull’aut-aut è, come sempre, poco produttivo quando si ha a che fare con l’educazione; forse, occorre qualche riflessione più articolata, per cui provo ad evidenziare alcuni problemi che ritengo sarebbe utile aver presenti, qualora si volesse affrontare la questione dei compiti a casa seriamente, al di fuori delle ondate giornalistiche, e dare risposte ragionate ad un problema reale e di non poco conto.

1. Non può esserci apprendimento senza studio. Acquisire conoscenze disciplinari e sviluppare abilità strumentali sono passaggi fondamentali, ancorché non unici, nel cammino istituzionale proprio della scuola e, affinché avvengano bene, occorre dedicare tempo alla memorizzazione, all’esercizio, al trasferimento analogico, alla correzione. Ma qualcuno può, forse, sostenere che queste operazioni avvengono per tutti gli allievi allo stesso modo e nello stesso tempo? Se tutta la lezione cognitivista e costruttivista del soggetto autore del proprio apprendimento non è passata invano, la risposta è, evidentemente, no. Si pone, allora, la questione: dare a tutti gli stessi compiti (con questa espressione intendo sia l’esercizio scritto, sia lo studio e la memorizzazione), nella stessa quantità e con la stessa metodologia ha un senso ai fini di un’efficace acquisizione di conoscenze e abilità disciplinari?

2. La corresponsabilità educativa è un valore. Quando un’istituzione scolastica presenta la propria offerta formativa alle famiglie non può non affrontare il tema del tempo scuola, che dovrebbe essere progettato proprio per venire incontro alle diverse esigenze delle famiglie e degli allievi, pur nel rispetto del compito istituzionale di ciascun ordine e grado di scuola: il tempo pieno per la primaria o il tempo prolungato per la secondaria di I grado sono formule benedette per quei genitori che lavorano entrambi e non hanno una rete familiare di appoggio, così come un tempo scuola minimo può essere utile per uno studente della secondaria di II grado che deve ogni giorno fare ore di viaggio per raggiungere la scuola.

Il problema, crediamo, è di altra specie: le competenze espresse nel modello di certificazione come descrizione sintetica di un percorso formativo hanno senso se gli insegnanti nella loro programmazione individuale declinano la propria area, individuando le operazioni mentali da osservare come indicatori del processo di apprendimento che consentiranno di limitare l’area di ricerca delle competenze.

All’interno delle diverse proposte organizzative elaborate da ciascuna scuola non può non essere considerata la questione “compiti e studio” e non possono non essere adottate e proposte strategie diverse che vanno esplicitate e “contrattate” (contrattare non è sinonimo di comunicare!) proprio con le famiglie e gli studenti. Con buona pace del contratto formativo e della corresponsabilità che ne consegue.

3. Fare i compiti vuol anche dire “sapere come si fa”. Se assegnare esercizi e studio funzionali alle modalità d’apprendimento dell’allievo e coerenti con la scelta organizzativa fatta dalla famiglia sono passi indispensabili per affrontare il problema dei compiti a casa, ne esiste un terzo, altrettanto importante. Quando un ragazzino o un giovane dice, sinceramente, di non saper da che parte cominciare di fronte ad un compito assegnato, vuol dire che qualche cosa non ha funzionato e non si può certo risolvere la questione addossandogliene sempre la responsabilità in toto (non è stato attento, non ha voglia di studiare, fa altro...). Attrezzare uno studente, dalla primaria alle superiori, rispetto al metodo necessario per eseguire un compito assegnato è azione professionale intenzionale, propria del docente, che non può certo pensare di delegarlo all’allievo stesso, al genitore o a qualche altro adulto esterno alla scuola. Non è sufficiente, dunque, “dare i compiti” e darli “giusti”, occorre anche accompagnare gli allievi allo sviluppo di quella riflessività che permette loro di capire “come si fa” e “perché si fa così”, per poi diventare autonomi e responsabili nel proprio agire personale, anche di fronte ai compiti assegnati. Penso, peraltro, che l’assunzione, a sistema, di questo compito da parte dei docenti potrebbe essere l’inizio della soluzione di molti problemi della nostra scuola, proprio a cominciare dall’annosa questione de “i compiti a casa”.