Ha ancora senso oggi occuparsi
in particolare degli alunni stranieri?

di Elio Gilberto Bettinelli, ScuolaOggi 18.4.2012

Ha ancora senso oggi occuparsi in particolare degli alunni stranieri? In effetti l’arrivo durante l’anno scolastico di bambini e ragazzi NAI (neo arrivati in Italia), che “non sanno una parola di italiano”, pare essere in costante diminuzione. Secondo il rapporto nazionale a.s. 2010/2011 “Alunni con cittadinanza non italiana. Verso l’adolescenza”, sul totale degli alunni CNI, la percentuale degli entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano nell’a.s. 2007/2008 sono stati il 10,9% nella SP, 9,5% nella SS1° e 8,8% nella SS2°. Nell’a.s. 2010/2011 sono stati rispettivamente 5,4% (SP), 5,5% (SS1°) e 3,8% (SS2°). Dunque un dimezzamento e un venir meno di quella che da molti era considerata una emergenza, sostanzialmente l’emergenza dell’insegnamento dell’italiano L2, vissuta come tale ormai solamente in qualche realtà locale.

Oggi, giustamente, si parla più appropriatamente di interazione e inclusione piuttosto che di accoglienza e integrazione. In effetti i dati del rapporto citato ci dicono che gli alunni CNI nati in Italia, italiani de facto anche se non ancora de iure, non solo aumentano costantemente ma sono ormai la maggioranza nella scuola dell’infanzia ( 78,3% dei CNI) e nella primaria (52,9%), mentre nella secondaria le percentuali sono più basse, pur in aumento sensibile rispetto agli anni precedenti: 23,8% in quella di primo grado e 9% nel secondo grado. Per questi gradi occorre considerare tuttavia che molti alunni non nati in Italia hanno tuttavia una lunga scolarità italiana essendo giunti nel nostro paese da piccoli.

Giustamente dunque si pone l’accento, almeno negli ambiti che riflettono sui nuovi compiti dell’intercultura, sull’interazione e sulle relazioni sociali nella scuola ma anche nel territorio che diventa anzi il luogo di indagine e di azione privilegiato per gli scambi culturali. Nella scuola semmai si pone il tema dei curricoli “in chiave interculturale”, un approccio in voga in un certo ambito di ricerca “sensibile” al tema ma che pare essere piuttosto circoscritto. Al di là delle definizioni, la questione riguarda la proposta di curricoli che tengano conto di varie dimensioni quali la pluralità culturale della nostra società, le interconnessioni planetarie, l’esigenza di un certo grado di condivisione e coesione sociale e culturale. Mediante i curricoli in chiave interculturale la scuola dovrebbe svolgere meglio la sua funzione formativa ed educativa, “generativa” di conoscenze e competenze adeguate alla realtà multiculturale della società.

Interrogarsi sui nuovi compiti e sulle nuove sfide è importante e necessario soprattutto in momenti come l’attuale in cui il “tema interculturale”, nella sua più vasta accezione, pare non stia proprio in salute, almeno se guardiamo al discorso pubblico, anche nell’ambito scolastico. In quello ufficiale in effetti sono decisamente scarsi gli interventi al riguardo. Dopo Le Linee guida del 2006 e il documento “La via italiana per l’educazione interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri” del 2007, si segnalano pochi atti significativi: la circolare del 30%, di cui Scuolaoggi si è occupata ampiamente, e la recente del 27 gennaio scorso “Studenti CNI iscritti a classi di istruzione secondaria di secondo grado. Esami di stato”. Tuttavia la scuola è pervasa da quello che alcuni definiscono il brusio delle pratiche interculturali che dà luogo a esperienze e produce strumenti e documenti assai interessanti che tengono il passo con i tempi. Oggi, tanto per fare un esempio, non è più giustificabile che qualche operatore della scuola, insegnante o dirigente, sostenga che non ci sono strumenti didattici per insegnare la lingua italiana, sia per la comunicazione che per lo studio, e per sviluppare percorsi interculturali tanta è la produzione e la qualità di testi e manuali ma anche di esperienze pubblicate. Dovremmo semmai interrogarci quanto questo brusio, che origina vere e proprie conversazioni costituite da interlocuzioni a distanza di tempo e di spazio, coinvolga la scuola nel suo complesso. Si ha l’impressione che la scuola, soprattutto quella ufficiale ma non solo, abbia avuto e abbia altro cui pensare fra tagli e cambiamenti, anche perché, come si è detto sopra, sembra che “la nottata”, l’emergenza, stia passando.

E tuttavia si corre il rischio di dare per superate problematiche solamente perché si sono stabilizzate, o perché ci siamo assuefatti o sono ormai diventate meno impellenti di fronte ad altre che paiono di maggiore portata. Si tratta allora di dare uno sguardo ad alcuni “fondamentali” dell’integrazione scolastica, riguardanti i percorsi scolastici degli alunni CNI. Fra questi individuiamo il ritardo scolastico, le bocciature/promozioni, la cosiddetta canalizzazione formativa e gli esiti delle prove INVALSI, l’ analisi dei quali è di grande interesse ma che sarà bene trattare in un altro intervento.

Per quanto riguarda il primo “fondamentale”, il rapporto nazionale conferma che i ritardatari (coloro che frequentano classi inferiori a quella corrispondente all’età anagrafica) sono in percentuale via via più alta dalla primaria all’ultimo anno della secondaria di secondo grado, rispettivamente 26,2% (5^ primaria), 54% (3^ SS1°), 72% (5^ SS2°). Ovviamente i dati risaltano maggiormente se li confrontiamo con quelli degli alunni CI, rispettivamente 2,2% - 9,9”- 28,8%. Non ci sono dati certi e generalizzati che permettano di distinguere fra i vari motivi del ritardo dei CNI e, d’altra parte, i dati non distinguono neppure, per tutti i fondamentali che stiamo considerando, fra alunni nati in Italia e quelli giunti successivamente. Le variabili sono molteplici e hanno a che fare con l’inserimento iniziale degli alunni NAI in classi inferiori all’età anagrafica, come prevede “di norma” la legge, la mobilità territoriale delle famiglie e le bocciature. Si tratta comunque di dati assai preoccupanti in quanto il ritardo può anche condurre ad abbandoni precoci della scuola e al mancato completamento dei percorsi di studio.

Considerando le bocciature si evidenzia che in ogni grado scolastico il primo anno è il più critico, persino nella scuola primaria. Anche questo è un dato che risalta se si confronta con quello degli alunni CI. Nel primo anno della primaria i CNI sono bocciati nella misura del 2,2% rispetto allo 0,4% dei CI; in quinta sono rispettivamente 0,9% e 0,3%. Nella secondaria di secondo grado, in prima sono 11,3% (CNI) e 4,4% (CI); in terza 7,5% e 3,2%. Nella secondaria di secondo grado le distanze fra stranieri e italiani si riducono: bocciati 12,9% dei CNI e 8,6% dei CI, in quinta 5,4% e 4%: è forse il caso di dire, con una certa enfasi, che coloro che non sono affogati riescono a nuotare nella misura, più o meno, dei loro compagni.

Infine il processo di canalizzazione o,come lo stesso report crudamente lo chiama, segregazione formativa. Si confermano dati già conosciuti come il fatto che poco più del 40% degli alunni CNI frequenta istituti professionali contro il 19,2% degli italiani; il 18,7 dei CNI sta nei licei rispetto a quasi il 40% dei CI. Negli istituti tecnici le cose sono più equilibrate, 38% di CNI e poco più del 33% dei CI. Se consideriamo che i dati non riguardano la formazione professionale regionale, dove la presenza di ragazzi CNI pare sia elevatissima, il termine di segregazione formativa risulta quanto mai appropriato. Le ragioni di scelte di questo genere sono molteplici; vi influiscono aspetti socio-economici famigliari ma anche l’orientamento scolastico esercitato dalla scuola secondaria di primo grado, la carenza di dispositivi di sostegno in molti istituti scolastici ma anche una scarsa fiducia nelle capacità di impegno e di ripresa dei ragazzi .

Nel complesso si delinea un quadro ancora assai critico e problematico con qualche leggero miglioramento, sostiene cautamente il rapporto citato, rispetto agli anni precedenti nei quali tuttavia i dati sono stati raccolti non in maniera costante e omogenea. Considerando la riduzione notevole degli alunni NAI, di certo ci si attenderebbe una evoluzione assai più marcatamente positiva rispetto a quanto in effetti è stato rilevato. Sarebbe opportuno che ogni singolo istituto scolastico avviasse una riflessione consapevole su quelli che abbiamo definito “fondamentali”, relativamente ai proprio alunni CNI, distinguendo fra nati in Italia, alunni con lunga o minore scolarità italiana. Una presa di consapevolezza che potrebbe aiutare a varare, pur con le scarse ma non assenti risorse disponibili, una politica scolastica locale più mirata.

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