La scuola malata e i prof da Avvenire, 13.8.2012 Professione insegnante: se si lasciasse libero sfogo agli aspetti negativi o problematici, la lista non finirebbe mai. Pagati poco (stipendi inferiori del 40% rispetto alla media europea), costretti a fare i conti con una progressiva burocratizzazione del loro ruolo e con una mortificazione della libertà di insegnamento, spesso condannati a un precariato che non dà certezze per il futuro, inseriti in un contesto che non premia il merito, con un prestigio sociale in caduta. E alle prese con giovani sempre più difficili o che gettano la spugna: nel 2010 in 195mila (il 31 per cento del totale) hanno abbandonato le scuole superiori, la maggior parte nei primi due anni. Per un insegnante, uno studente che lascia è sempre una sconfitta. Le percentuali degli abbandoni sono in calo ma comunque a livelli superiori alla media europea, e rivelano un disagio che non ha solo motivazioni economiche o sociali. Il 38% dei quindicenni italiani ritiene la scuola un luogo dove non si ha voglia di andare. Quando insorgono difficoltà di apprendimento, gli strumenti di recupero istituzionali risultano per lo più inefficaci, per cui le famiglie ricorrono in maniera massiccia alle ripetizioni private, con una spesa che si stima superi i 430 milioni di euro l’anno. Il contesto, come si vede, è sconfortante, e fa nascere più di una domanda sulle reali possibilità di guarigione di questo “grande malato”. Eppure, nella stragrande maggioranza i “prof” non si arrendono e si cimentano in una sorta di rivincita personale e professionale più forte di tutte le difficoltà con cui si devono misurare ogni giorno. Secondo un recente sondaggio, il 78% sceglierebbe di nuovo l’insegnamento, con motivazioni che riguardano, nell’ordine, il rapporto con gli studenti, la passione per l’insegnamento, la possibilità di essere creativi, il rapporto con i colleghi. Come dire: gli ostacoli che nessuno può negare, non riescono ad avere la meglio sulla passione per l’educazione, sul desiderio di costruire. C’è chi rimane convinto che questo sia uno dei mestieri più belli. Perché più di altri ha a che fare con l’umano, con ciò che abita le profondità della mente e del cuore, come confermano le testimonianze che pubblichiamo in questa pagina, alcune delle quali vengono presentate nella mostra centrale del Meeting di Rimini (19-25 agosto, “L’imprevedibile istante. Giovani per la crescita”, promossa dalla Fondazione per la sussidiarietà, e di cui Avvenire è mediapartner). E a dispetto di tutto il male che si può dire e si dice della scuola, sono migliaia i giovani che aspirano a entrarci, come dimostra la massiccia affluenza alle selezioni per l’accesso ai Tfa, i tirocini attivi, che tante polemiche ha generato nei giorni scorsi per la farraginosità dei test proposti dal ministero dell’Istruzione. Non sono (solo) giovani disoccupati in cerca di un posto purchessia, ma in molti casi persone animate da quella passione per l’educazione che è il cuore dell’insegnare. E che potrebbero svecchiare un corpo docente dove attualmente solo lo 0,2 per cento ha meno di trent’anni.
Che fare per curare il “grande malato”? In questi anni al suo
capezzale si sono avvicendati in molti, spesso con ricette
antitetiche, mentre per un ambito così strategico per il presente e
il futuro del Paese sarebbe necessario un impegno trasversale e
capace di uno sguardo lungo. Tra gli ingredienti irrinunciabili di
qualsiasi riforma che abbia l’ambizione di produrre frutti duraturi
ci devono essere l’impegno per una riduzione dell’abbandono
scolastico, il rilancio di una reale autonomia degli istituti,
l’attuazione di un sistema che sia paritario anche sotto il profilo
economico per dare alle famiglie un’effettiva facoltà di scelta, una
riformulazione delle carriere basate sul merito, una revisione
radicale dell’abilitazione e del reclutamento… Ma soprattutto
servono insegnanti motivati, che abbiano il coraggio e la passione
necessari per cimentarsi con la difficile e affascinante sfida
dell’educazione. Una sfida che può partire solo dalla consapevolezza
dell’irriducibile positività dell’io, risorsa fondamentale per non
farsi scoraggiare dagli acciacchi del “grande malato” e per
accompagnare i giovani nell’avventura della conoscenza. (Giorgio
Paolucci)
Sono un neolaureato in Filosofia a Macerata. Non ho mai scartato
l’ipotesi di intraprendere la professione di insegnante. All’inizio
dell’università consideravo questa scelta come un ripiego alla
carriera accademica. Poi le varie ripetizioni che ho svolto per
pagarmi gli studi, gli incontri organizzati per aiutare gli studenti
delle superiori per la maturità, mi hanno fatto capire che fare
l’insegnante, oltre a essere interessante, fosse anche decisivo per
la formazione delle coscienze dei ragazzi. Queste esperienze hanno
confermato quello che già avevo intuito al Liceo. La filosofia non è
astratta, separata della vita. Essa nasce dalla vita e cerca di
chiarirla. Ciò è stato chiaro fin da quando ho conosciuto i primi
filosofi naturalisti: come non meravigliarsi di chi per primo pone
il problema dell’origine del cosmo? E, andando avanti con gli studi,
come non rimanere stupiti da Agostino, dove l’asse portante del suo
pensiero è la sua stessa esperienza? Ero divenuto problema a me
stesso recita un passaggio della Confessioni: niente è più vicino
all’inquietudine e alla baldanza che caratterizzano l’adolescenza. È
stato grazie a queste letture che ho smesso di seguire strane
compagnie che cercavano di farmi credere che il vuoto che uno ha
dentro lo colma con delle sostanze. È con questa consapevolezza che
ho deciso di intraprendere la strada tortuosa e kafkiana del Tfa. Ho
chiaro tutte le difficoltà cui andrò incontro: precariato, stipendio
da fame, un lavoro che non gode più del prestigio che aveva in
passato. Eppure questo non mi basta, perché io non cerco e non
chiedo questo alla vita. Vorrei far conoscere ai ragazzi quello
stupore e voglia di vivere che ho incontrato attraverso la
filosofia; stupore e meraviglia non acquisibili attraverso Wikipedia
o tecniche pedagogiche, ma solamente nel rapporto tra discepolo e
maestro di socratica memoria. (Gabriele Codoni, Macerata) Insegno lettere al ginnasio in un liceo statale milanese da 15 anni e la mia esperienza di insegnamento, sempre in licei classici, conta ormai 25 anni. Molti sono i momenti in cui ho potuto gustare la bellezza di questo lavoro che amo e che non finisce di appassionarmi. Una bellezza alla quale non sono estranei difficoltà, fatiche e insuccessi, ma che permane come percezione ultima. Vi sono poi circostanze in cui lo spettacolo di un «io» in azione si svela in tutta la sua imponenza nella quotidiana attività scolastica. Ecco un paio di episodi. In una quinta ginnasio, dove insegno latino, quest’anno ho dedicato un’ora settimanale a un’esercitazione di traduzione a prima vista, ovviamente senza il dizionario. Un giorno ho proposto una novità: tradurre un passo di Cesare dopo averlo sentito leggere da me, senza avere il testo sotto gli occhi. Hanno comprensibilmente opposto una certa resistenza che è stata tuttavia vinta dalla fiducia che ho dimostrato di avere nella loro possibilità di farcela. Così, in tre quarti d’ora traducono una quindicina di righe del De bello civili con una proprietà di linguaggio impressionante. Grandissima la soddisfazione. E allora rilancio la sfida: ricostruire a memoria il testo latino con il libro chiuso, loro e io insieme. Per una decina di righe, grazie al contributo di tutti, l’operazione riesce. Ma poi la memoria ci abbandona e anch’io, che avevo il vantaggio di avere letto il testo, non ricordo, manca qualcosa... Dopo vari tentativi faccio il gesto di riprendere il libro per leggere ma vengo fermata da un coro di voci: «No prof, non si arrenda!». Mi sono commossa: quei ragazzi mi avevano superato e nel contempo mi chiedevano di non venire meno al fatto di essere più di loro: un maestro, appunto. Era un «imprevedibile istante» che ci aveva mosso.
Altro episodio, sempre in una quinta ginnasio dove insegno italiano.
Al suono della campanella dopo l’intervallo mi avvio verso la mia
classe dove era in programma la lettura del terzo libro dell’Eneide.
Vengo però invitata da alcuni studenti a rimanere fuori dalla classe
per qualche minuto. Invitata poi a entrare, mi si presenta uno
scenario imprevedibile: una ragazza legge il secondo libro (il
bellissimo racconto che Enea fa alla reggia di Didone della notte in
cui viene distrutta Troia) con l’accompagnamento musicale di due
compagni alla chitarra e al violino. Nel silenzio compreso in cui
tutti seguivano la lettura, mi sono commossa per il grado di
immedesimazione di quei ragazzi. Ho poi chiesto chi fosse l’autore
del brano musicale. Immaginatevi la sorpresa quando mi sono sentita
rispondere dal chitarrista: «Prof, l’ho composto io!». |