Preselezione Tfa, la politica in pubblico
dice di voler aiutare i giovani, ma...

Giovanni Cardella La Tecnica della Scuola, 29.8.2012

Egregio Ministro Profumo,

la vera ragione che mi ha spinto a scriverle queste poche righe è stata, più che altro, il bisogno di uno sfogo personale (anche perché consapevole del destino di tale lettera, cestinata ancor prima di essere aperta).

Giorno 23 del mese scorso ho affrontato la preselezione per la classe di concorso A019 presso l’Università di Palermo. Le speranze di superamento della prova erano ben poche non certo a causa della mia preparazione ma per il numero dei posti disponibili, solo dieci.

Tuttavia, spinto dalla necessità di un posto di lavoro e dalla voglia di mettermi sempre alla prova, ho deciso di pagare la “modica” tassa d’iscrizione e di sostenere i test. Tassa da me considerata una vera e propria forma di pizzo di stato. È cambiato soltanto il sentimento cui si è fatto leva per ottenerla, in quanto, mentre le organizzazioni malavitose ricorrono alla paura, lo Stato ha approfittato della disperazione di tanti giovani.

Comunque, la prova è durata tre ore, un tempo eccessivo per sole sessanta domande che non ha fatto altro che invogliare i candidati, specie nell’ultima ora, a collaborare tra di loro compromettendo così la serietà della prova. Peraltro il candidato, anche se aveva finito, non poteva andarsene prima che non fossero trascorse due ore e trenta minuti dall’inizio e, di conseguenza, o stavi più di un’ora con lo sguardo nel vuoto o cercavi, come del resto hanno fatto in tanti, di colmare le lacune aiutandoti con i candidati vicini. Ciò nonostante, non è questa la critica maggiore, anche se un tempo inferiore avrebbe di certo ridotto le possibilità di cooperazione tra i candidati e certamente favorito quelli più preparati.
Quello che mi ha veramente deluso (non stupito perché in Italia oramai siamo abituati a tutto) è stato scoprire che in quasi tutte le classi di concorso più domande erano poste male e quindi da annullare. La soluzione scelta è stata quella di attribuire per tutte queste domande, indipendentemente quale risposta avesse dato l’aspirante insegnante, un punteggio positivo. A questo punto mi chiedo: che valore ha un test in cui dieci e, a volte, più quesiti su sessanta sono considerati sempre corretti? Gli unici favoriti sono stati coloro che, magari con una preparazione lacunosa, si sono ritrovati con un punteggio che non rispecchia la loro reale preparazione.

A quanto detto, va aggiunto che ragioni di buon senso dovrebbero riconoscere a questo tipo di test il ruolo di sfoltire l’elevato numero di candidati e permettere così di fare accedere alle successive prove (che sono quelle che consentono di valutare concretamente la preparazione degli esaminanti) soltanto a chi possieda una preparazione quantomeno sufficiente. In questo concorso, a causa del tipo di test prescelti, più che sfoltire si è decimato il numero dei candidati, giacché in alcuni casi ha raggiunto il punteggio minimo un numero di candidati quasi coincidente al numero dei posti definitivi mentre, in altri casi, addirittura, un numero di candidati inferiore dei posti disponibili.

Infine, una breve riflessione va fatta sull’attribuzione del punteggio. Alla risposta data in modo errato non veniva attribuita nessuna penalità. Questo non ha fatto altro che favorire quanti hanno fatto il test senza un’adeguata preparazione, poiché se la fortuna era dalla loro parte avrebbero potuto azzeccare la risposta esatta. Diversamente, una penalità a ogni risposta errata, avrebbe di certo avuto una funzione deterrente. Tutto ciò, non ha fatto altro che far perdere di valore le prove più importanti (quella scritta e quella orale) favorendo, in tal modo, quei candidati che conoscevano a memoria una definizione, una data o, peggio ancora, che mettendo una crocetta a caso hanno azzeccato quella giusta.

Ebbene, come anticipato in premessa, il mio è stato soltanto uno sfogo personale che ha come unico scopo quello di sensibilizzare le Istituzione verso noi giovani e verso la situazione drammatica in cui ci troviamo. Con la speranza, per i futuri concorsi pubblici (sempre se ce ne saranno) di essere strutturati in modo tale da permettere ai più preparati e non ai più fortunati di emergere.

Giovanni Cardella
Raffadali