SCUOLA
Israel: vi racconto il "Vietnam" intervista a Giorgio Israel il Sussidiario 5.9.2011
La complicata vicenda della formazione e del reclutamento dei nuovi
docenti, tema ampiamente dibattuto su questo giornale, ha visto
elementi di novità dopo la conferenza stampa del ministro Gelmini lo
scorso 31 agosto, quando la titolare di Viale Trastevere ha
dichiarato i «numeri» dei docenti che saranno immessi in ruolo dalle
graduatorie, e quelli relativi ai nuovi docenti da abilitare. Il
dibattito offre l’occasione a Giorgio Israel di fare con
ilsussidiario.net un punto sull’intera vicenda, e sui criteri che
stanno prevalendo dopo le iniziali dichiarazioni riformatrici, nella
scrittura delle «riforme» della scuola e dell’università. «La
politica ha manifestato la sua debolezza di fronte a corporazioni,
sindacati e tecnocrazie ministeriali, cedendo alla logica della
scuola come ammortizzatore sociale» dice Israel. Il futuro?
«Confesso di essere pessimista. Ci vorrebbe un’inversione totale di
orientamento che non appare all’orizzonte...».
Mi pare che il ministro abbia sciolto i dubbi nel senso di
confermare puntualmente le cifre e le scelte che hanno generato le
polemiche. Quindi, mi pare che nulla sia cambiato.
La dichiarazione che «lo Stato non può creare artificialmente posti
di lavoro che non esistono» è coerente con l’atteggiamento del
ministro fin dalla soppressione delle SSIS viste come una fabbrica
di precariato e con la scelta di fissare dei tetti per le nuove
lauree magistrali per la formazione degli insegnanti e per il TFA
(Tirocinio Formativo Attivo), che ovviamente dovevano essere
contemperati con l’esaurimento del precariato pregresso. Noto
tuttavia che in una conferenza stampa di un anno fa (2 settembre
2010) il ministro sottolineava che il problema precari era immenso,
che «nessun Governo è in grado di assorbirne 200 mila: prioritario è
non crearne altri», ed enfatizzava l’importanza del nuovo sistema di
formazione iniziale.
Poi si è passato a parlare di esaurimento del precariato pregresso
nell’arco di 6-7 anni. Adesso si parla di immissione di tutti
nell’arco di un triennio - secondo le richieste avanzate con molta
durezza dai sindacati. E l’avviso a non nutrire troppe aspettative
ha cambiato destinatario: i giovani. I quali sono ormai un esercito
in attesa di circa 60.000 unità, ma privo di strutture organizzative
che lo difenda. È evidente che se il problema del precariato viene
affrontato in questi termini, i numeri per il nuovo sistema di
formazione non possono che essere esigui.
Penso che verrà assestato un
colpo letale al rinnovamento generazionale e culturale della scuola
italiana, in barba a tutta la retorica giovanilista che ci viene
propinata da mane a sera. Mi chiedo persino a che pro spendersi
tanto a costruire un nuovo sistema di formazione iniziale se alla
fine la montagna partorisce un topolino. Noto soprattutto che la
prospettiva di una sostanziale chiusura dell’accesso dei giovani
all’insegnamento significa anche assestare un colpo letale
all’università: le facoltà che formano nuovi insegnanti (soprattutto
Lettere e le facoltà scientifiche) subiranno una drastica
diminuzione di iscritti, con quali conseguenze per la cultura
umanistica e scientifica di questo paese è facile immaginare.
Questa distinzione ha
ispirato il lavoro della commissione che ho presieduto. In primo
luogo, perché avrebbe consentito una maggiore elasticità nei numeri:
non si vede perché l’abilitazione debba costituire la garanzia di
avere un posto. Questa è una tipica malattia italiana: ottenere la
garanzia del posto fisso subito. Invece, prima ci si abilita alla
professione docente, poi, secondo modalità di reclutamento definite
a parte - concorsi, chiamata diretta, o altro, non entro ora nel
merito - si viene assunti. Ma c’era un’altra ragione ancor più
importante per tener ferma quella distinzione, e che spesso non
viene colta. In una situazione compromessa come la nostra, si
trattava di operare un taglio netto tra passato e futuro, creando un
nuovo sistema di formazione per il futuro, da mettere a regime in
totale indipendenza dalle eredità pregresse.
Se si fossero mescolate le
due questioni sarebbe subito iniziato un lavorìo per risolvere al
livello del nuovo sistema di formazione il problema del precariato,
corrompendone subito la qualità culturale e gli intenti e lasciando
che il passato afferrasse il futuro per i piedi. Evidentemente, il
problema del precariato esiste, ma è un problema da risolvere in
termini politici. La scelta dei «numeri» è politica e non tecnica.
Non sarebbe stato serio occultare e «risolvere» a un livello
falsamente tecnico un problema politico, che la politica in prima
persona ha il dovere di risolvere a viso aperto. Ma proprio perché
abbiamo impostato il problema in termini di formazione e non di
reclutamento è nato il problema dei numeri e la politica è stata
costretta a scegliere.
Proprio così. Ancora una
volta la politica ha manifestato la sua debolezza di fronte a
corporazioni, sindacati e tecnocrazie ministeriali, cedendo alla
logica della scuola come ammortizzatore sociale. Come ha detto a
Ilsussidiario.net Ernesto Galli Della Loggia, non c’è futuro
per un paese che continua a pensare che la cosa più importante di
tutte sia assumere decine di migliaia di precari.
No, è proprio l’iter del
Regolamento che non ha lasciato ben sperare: agli inizi sembrava di
poter essere ottimisti, ma poi le cose hanno preso una brutta piega.
Per affrontare in modo equo la situazione occorreva prefigurare un
riassorbimento del precariato (con regole meritocratiche) nell’arco
di 7-10 anni e intanto avviare in modo vigoroso il nuovo sistema,
culturalmente più qualificato. Dopo tre anni di pausa, un numero di
circa 60.000 posti per i giovani laureati sarebbe stato del tutto
ragionevole. Per contemperare le due esigenze, scontentando un po’
tutti, occorreva opporsi alle pressioni corporative e sindacali,
oltre che a prassi invalse nella gestione ministeriale. Ma per
questo occorreva una forza e una decisione politica che questo
governo da tempo non ha più, e che peraltro nessuno dei ministri
dell’Istruzione dell’ultimo ventennio (almeno) ha avuto.
Su questo punto vorrei
essere chiaro una volta per tutte: l’esperienza di un professore in
contesti come questo è istruttiva e un giorno conto di raccontarla
in dettaglio, perché illustra bene come gli interessi corporativi in
questo paese sono capaci di demolire le migliori intenzioni. Il
ministro ci chiese di operare nel senso che sopra ho descritto e in
tempi rapidissimi, per non lasciare vuoti dopo la soppressione delle
SSIS. La commissione ha iniziato i lavori il 5 settembre 2008 e ha
prodotto con inedita celerità un progetto di regolamento consegnato
il 24 dicembre 2008. Va riconosciuto agli uffici legali del
ministero di aver approntato la versione legislativa in tempi
rapidissimi: entro la fine di gennaio 2009. Poi è iniziato il
processo di consultazione di associazioni professionali e sindacati
che ha prodotto una mole enorme di critiche e suggerimenti che, per
lo più, hanno prodotto soltanto dilazioni perché si elidevano quasi
tutte a vicenda. Non entro nel merito, ma va detto che assieme a
proposte ragionevoli (come l’aumento delle ore di tirocinio) ve ne
sono state altre assurde e persino giuridicamente incompatibili con
l’autonomia universitaria. Ma l’aspetto più devastante è stata
l’insistita richiesta di saldare nuovamente la tematica del
reclutamento a quella della formazione e di introdurre una serie
interminabile di modifiche sia tese a difendere gli interessi di
gruppi e camarille accademiche e scolastiche formatesi attorno alle
SSIS, sia a introdurre «norme transitorie» volte alla difesa degli
interessi del precariato. Va dato atto al consigliere Max Bruschi di
aver difeso in tutti i modi lo spirito del regolamento...
Questo è stato possibile
fino a un certo punto, come testimonia l’art. 15 del decreto, che
costituisce un ammasso di norme transitorie, spesso discutibili e
incoerenti e che marca in modo evidentissimo lo stravolgimento già
avvenuto del progetto: basta mettere il testo iniziale e quello
finale l’uno accanto all’altro. Poi c’è stato il calvario
interminabile dell’esame da parte degli organi di controllo e
ulteriori richieste di revisione sempre dettate da esigenze di norme
transitorie. Va detto che anche il dibattito nelle commissioni
parlamentari è stato tutt’altro che agevole, poiché ha privilegiato
l’audizione di tutte le istanze contrarie al progetto: non un membro
della commissione è stato convocato... Così siamo giunti dall’inizio
del 2009 alla primavera 2011, per avere l’approvazione definitiva!
Quasi due anni e mezzo... Ma il colpo definitivo e letale - che mi
induce a rigettare la paternità del prodotto finale - è stato il
decreto attuativo dell’aprile 2011.
...nel quale è stato
introdotto l’obbligo di non attivare più di una laurea magistrale
regionale, mettendo assieme tutte le università regionali, pubbliche
e private chiamate ad individuarne una sola come sede della gestione
della laurea e, come se non bastasse, si è prescritto che «di norma»
anche il TFA doveva essere centralizzato nella stessa università.
Questo ha costituito uno stravolgimento totale dello spirito del
nostro progetto che mirava a superare il principale difetto delle
SSIS (che pure in certe sedi hanno avuto pregi, ma sempre questo
difetto), e cioè di essere nel totale controllo di gruppi
cristallizzati e autoperpetuantesi di docenti universitari e di
docenti delle scuole (nella figura di supervisori prorogati in
eterno). Il nostro progetto mirava a creare un rapporto agile,
elastico, decentralizzato, non burocratico tra università e istituti
scolastici, con l’intento di «costringere» tutto il mondo
universitario a coinvolgersi nella formazione (anziché delegarla
pigramente ai soliti noti) e creare un più vasto apporto da parte
delle scuole, non più ristretto ai soliti docenti distaccati a vita.
L’intenzione era di dare linfa e vitalità al sistema, di produrre un
continuo arricchimento culturale attraverso un’interazione ampia e
non burocratica tra le due istituzioni.
Invece ora ci troviamo di
fronte a una struttura il cui centralismo accademico-burocratico fa
impallidire l’autoreferenzialità delle SSIS: tutto è in mano dei
comitati regionali universitari e delle unità scolastiche regionali,
organismi troppo lontani dalla realtà culturale e didattica delle
università e delle scuole. E il fatto curioso è che non si riesce a
capire chi sia l’autore di un decreto attuativo tanto assurdo e
sconcertante. Quel che è certo è che si tratta della rivincita delle
corporazioni stataliste e centraliste che - tipico male di questo
paese - hanno preferito una guerriglia vietnamita di tre anni,
incuranti delle esigenze dei giovani laureati, pur di non perdere le
loro posizioni di potere. Non a caso ora si parla addirittura di
creazione di un ente analogo alla Codissis (la conferenza dei
direttori delle SSIS) e c’è persino chi vaneggia di creare un ente
nazionale unico per la formazione pedagogica degli insegnanti. Si
tenta persino di sterilizzare le novità culturali contenute nelle
tabelle delle lauree della primaria e delle medie inferiori,
convocando riunioni in cui si compilano «syllabus» che i docenti
sarebbero tenuti a seguire nei loro corsi. Altro che statalismo...
roba sovietica...
Esprimere una volontà
politica abbastanza forte da far approvare in tempi rapidissimi -
sia pure accettando modifiche ragionevoli - il regolamento in
versione non stravolta. Ma voglio terminare con un esempio della
confusione dilagante. Giorni fa mi è stato chiesto perché mai si
sono previsti nella tabella della LM95 dei crediti obbligatori di
scienze naturali per i laureati triennali in matematica, e di
matematica per i laureati in scienze naturali. Si lamenta che questa
«rigidità» ora crei problemi a persone che in questo triennio si
sono laureate al di fuori delle nuove regole. Ma la domanda è: quale
gruppo di persone in stato di salute mentale potrebbe mai pensare di
stilare un regolamento nella previsione che non venga applicato
prima di tre anni?... E diciamo pure forse quattro o cinque, perché
le circolari ministeriali che impongono (ora) termini strettissimi
di attivazione di lauree e TFA non si accompagnano a nessun atto che
prenda le misure necessarie per consentire tale attivazione in modo
concreto. I numeri hanno ballato fino ad ora e non risulta che
nessuno stia pensando a organizzare le prove di accesso.
Vorrei essere chiaro in
merito. Chi parla di approvazione del pdl Aprea nello scorcio di
questa legislatura gravata da problemi gravissimi, vende favole e
manifesta quel che molto probabilmente vi è dietro tutta questa
strana vicenda: il desiderio di affossare del tutto la nuova
normativa per la formazione iniziale, e di farlo rendendola
irrilevante. Tanto varrebbe dire chiaramente: abbiamo scherzato per
tre anni, buttiamo tutto alle ortiche e qualcun altro ci penserà,
per l’intanto facciamo una mega sanatoria dei precari che quantomeno
serve a rabbonire politicamente i sindacati, merce preziosa in
questi tempi. Reclutamento diretto da parte delle scuole? Per fare
una simile rivoluzione occorrerebbe valutarne tutti gli aspetti in
modo serio e responsabile, e soprattutto crederci, altrimenti siamo
a una vacua retorica aziendalista. Guardando a quel che è accaduto
con la riforma universitaria, mi pare che in fin dei conti si
finisce col muoversi in senso opposto, anche qui in piena
subordinazione allo statalismo ministerial-sindacale.
Ma la riforma va in senso
opposto, imponendo regole strette già per l’idoneità nazionale,
regole pesanti che tolgono qualsiasi autonomia di valutazione alle
commissioni. La neonata Anvur ha prodotto direttive per le
valutazioni, improntate alla più ottusa bibliometria, non tenendo in
alcun conto le osservazioni del Cun e del mondo universitario (e le
critiche che ormai piovono dall’estero nei confronti di questi
metodi). D’ora in poi, all’arbitrio delle commissioni si sostituirà
quello di regole quantitative cieche, discutibili, e autorevolmente
contestate. La valutazione diventerà roba da burocrati e passacarte,
calcolatori di h-index. Poi, come se non bastasse, verrà la
valutazione ex-post, anche questa con gli stessi discutibilissimi
criteri. Altro che «scegliete liberamente, poi vi valuteremo». Qui
trionfa la più occhiuta e opprimente burocrazia statalista, forse
perché ormai è uno sport nazionale dire che l’università è la
sentina di tutti i mali e quindi va commissariata in ogni suo atto.
Dovremmo allora credere che la scuola sia invece totalmente esente
da tutti questi mali, al punto da consegnare alla corporazione dei
dirigenti scolastici la libertà totale di assumere? Andiamo... Non
soltanto esistono anche qui mele marce, ma un singolo istituto
scolastico è una struttura piccola e ben più indifesa di
un’università.
È facile immaginare cosa
potrebbe succedere in certe zone del paese, dove la criminalità
organizzata scoprirà nella compilazione delle liste di assunzione
nelle scuole un altro lucroso giro di affari... Certo, si può
studiare come prevenire questi rischi, ma non è cosa da prendere
sottogamba cavandosela con la retorica dell’autonomia. Di certo,
prima di fare una cosa del genere il minimo è mettere in piedi un
serio, serissimo sistema di valutazione ex-post. Ma anche qui le
cose non promettono di andar meglio che con l’università. I primi
passi mossi in tale direzione, con i progetti sperimentali del
ministero, sono stati caratterizzati da leggerezza e superficialità
e c’è da preoccuparsi seriamente all’idea che vengano generalizzati.
Si apprende che è in cantiere un altro progetto sperimentale in cui
la valutazione degli istituti verrà affidata a commissioni la cui
formazione sarà a cura dei dipartimenti universitari di
psicologia... Al riguardo è curioso che non si senta la voce di
coloro che si scagliano quotidianamente contro la «prepotenza»
dell’accademia universitaria. Confesso di essere pessimista. Ci vorrebbe un’inversione totale di orientamento che non appare all’orizzonte. Ci vorrebbe soprattutto una fiducia nelle persone che valgono, la capacità di mobilitare le forze vive e davvero appassionate a insegnare, che credono nella cultura e nei valori e non si sono appiattite in una sterile metodologia da «burosauri». La vera meritocrazia è valorizzare queste forze, valorizzare la cultura e non i parametri. Questa è stata l’ispirazione iniziale di questo ministero, mentre ora prevale la subordinazione al corporativismo e alla tecnocrazia. Quando si apprende che verranno spesi - negli attuali chiari di luna - un centinaio di milioni per introdurre il wi-fi in scuole disastrate (vi sono scuole in cui quando piove dal tetto occorre staccare le LIM...); quando si apprende che la principale preoccupazione è spendere e spandere per tecnologia ed editoria digitale (addirittura corredata di videogiochi!); quando si leggono i tabulati dei ricchi compensi che prendono certi «esperti» per formulare test insulsi; quando si apprende che un dirigente ministeriale ha invitato gli insegnanti a stabilire in modo friendly i rapporti con gli studenti attraverso Facebook... dopo quel che è successo in Inghilterra... bene, cascano le braccia. La via per ridare dignità alla funzione docente non è questa, non è almanaccare marchingegni tecnocratici, fare retorica e mandare a picco le riforme che privilegiano il merito. |