L'INCHIESTA
Do you speak mandarino?
Cinese, nuova lingua globale
Nel 2015 diventerà l'idioma più studiato del
pianeta. Ha già superato l'inglese e per i top manager è ormai
indispensabile. Pechino finanzia mille scuole in tutto il mondo. E
c'è chi va in Asia per studiare gli ideogrammi
Giampaolo Visetti
la Repubblica, 19.10.2011
PECHINO - Mandarino contro inglese. Oriente e Occidente non si
fronteggiano solo sui mercati finanziari e nella corsa al riarmo. La
Cina acquista i debiti di Europa e Stati Uniti, domina il commercio,
si prepara a sostituire euro e dollaro con lo yuan, prossima valuta
mondiale di riserva, ma prima di tutto punta a conquistare la
comunicazione del secolo.
Dieci anni fa nessuno avrebbe immaginato che il putonghua avrebbe
superato la Grande Muraglia. Nel 2011, senza che nessuno se ne
accorgesse, l'ennesimo primato è battuto: dall'inizio di ottobre il
cosiddetto cinese è la lingua che il maggior numero di stranieri ha
iniziato a studiare. Un boom senza precedenti, per quantità e
rapidità. Nel 2000 erano poco più di due milioni i non cinesi che
tentavano di imparare gli ideogrammi del mandarino. Oggi sono 50
milioni e la domanda è talmente forte che scuole e università si
scoprono spiazzate. La Cina diventa la seconda potenza economica del
pianeta e il "cinese" è già la prima potenza linguistica.
È la madrelingua di 850 milioni di individui e altri 190 milioni lo
parlano perfettamente come secondo idioma, pari al 70% dei cinesi.
L'inglese, che ha dominato l'ultimo secolo, è compreso oggi da 340
milioni di madrelingua, oltre che da 510 milioni di non anglofoni.
Per governi e multinazionali il problema non è però il confronto
assoluto dei numeri. Conta la tendenza e negli ultimi cinque anni
tutto lascia presagire che entro il 2015 il mandarino, più ancora
dello spagnolo, ultimerà la rincorsa all'egemonia culturale
nell'economia e nella politica. "Il risultato - dice il professor Li
Quan dell'università Renmin di Pechino - è storicamente scontato.
Chi domina la ricchezza, da sempre impone il linguaggio. Ormai è
chiaro che la Cina avrà il potere commerciale nel lungo periodo e
l'Occidente si rende conto della necessità di conoscerla e di capire
come funziona. L'ascesa del mandarino e il tramonto dell'inglese
sono lo specchio popolare della realtà".
Non che la Cina si sia affidata alla curiosità delle persone e alla
necessità dei mercati. Nessun governo ha investito tanto per imporre
la propria lingua agli altri. Il primo Istituto Confucio all'estero
ha aperto nel 2005. In cinque anni ne sono seguiti 315 in 94 Paesi e
quest'anno gli stranieri iscritti ai corsi di mandarino hanno
sfondato quota 230 mila. Un'esibizione impressionante del nuovo soft
power di Pechino: 5 mila insegnanti inviati e mantenuti in ogni
angolo della terra, con l'ambizione di aprire mille scuole Confucio
entro il 2015.
Negli Stati Uniti si parla già di "febbre cinese", la destra
conservatrice lancia l'allarme sul "rischio di sconnessione dal
Vecchio Continente", ma la stessa Europa guarda sempre più verso
Oriente. Un rapporto della Bce ha certificato che il mandarino è già
la "lingua più ambita dalle imprese", che un neolaureato in grado di
parlarlo accorcia di un terzo l'attesa per il primo impiego e che le
multinazionali germaniche iniziano a inserire la conoscenza del
cinese come pre-requisito per un colloquio di lavoro.
Sarebbe però un grosso errore limitare lo sguardo all'Ovest. E' in
Asia e nei Paesi in via di sviluppo che la lingua degli antichi
funzionari imperiali (mandarino deriva da mantrin, ossia "ministro"
delle dinastie prerivoluzionarie) si sta affermando quale lingua
franca alternativa all'inglese. Il Pakistan da quest'anno l'ha resa
obbligatoria nelle scuole. Il presidente russo Medvedev ha
proclamato il 2010 anno della lingua cinese in Russia. In Corea del
Sud e Giappone gli iscritti ai corsi di mandarino crescono del 400%
all'anno, mentre gli ex satelliti sovietici dell'Asia centrale
stanno sostituendo il cinese al russo.
Kazakhstan, Turkmenistan e Azerbaigian, serbatoi energetici di
Pechino, dal 2012 offriranno agli studenti lezioni ed esami
universitari sia nella lingua nazionale che in mandarino, mentre
nessuna capitale dell'Africa è più sprovvista di un Istituto
Confucio. Il simbolo dell'imminente passaggio di consegne
linguistico è però la Gran Bretagna, culla dell'idioma mondiale
successivo alle guerre mondiali del Novecento. Fino a due anni fa,
300 mila cinesi emigravano tra Oxford e Cambridge per laurearsi in
inglese. Oggi sono oltre mezzo milione, possono concludere gli studi
nella propria lingua madre, mentre tutti gli atenei più prestigiosi
si contendono docenti di mandarino a colpi d'ingaggio. "Siamo
davanti ad un'epocale rivoluzione del linguaggio umano - dice Zheng
Wei, docente della facoltà di lingue di Pechino - ma le difficoltà
restano: il mandarino è complicato e non è affatto scontato che chi
afferma di studiarlo, riesca a impararlo".
Gli stessi cinesi hanno atteso fino al 1956 per arrendersi. Prima
dell'ordine di Mao Zedong, teso a rafforzare l'identità nazionale,
nel Dragone si contendevano il potere linguistico il cantonese, lo
shanghaiese, il mandarino, il tibetano e altre decine di dialetti
regionali. Il partito comunista optò infine per il linguaggio da
sempre proprio del potere e nell'ultimo mezzo secolo il mandarino
s'è imposto anche a Taiwan, a Singapore (dove è parlato da un quarto
della popolazione) e alle Nazioni Unite, adottato tra le sei lingue
ufficiali. Resta lo scoglio della difficoltà. Priva di alfabeto,
organizzata per ideogrammi, la lingua comune dei cinesi obbliga a
memorizzare migliaia di termini e di segni, ognuno dotato di quattro
significati differenti a seconda dell'intonazione con cui viene
pronunciato. Arte e creazione, per i calligrafi, abituati a misurare
intelligenza e tasso culturale di un individuo in base alla grazia
dei segni.
"L'industria della comunicazione - dice Wang Ying, dirigente del
colosso Lenovo - ne sta prendendo atto. I cinesi scrivono sempre
meno a mano e gli stranieri stentano a impugnare i pennelli. Entro
dieci anni ogni modello di computer e di telefono avrà tastiere
doppie mandarino-cinese. Ma può non essere azzardato prevedere che
entro il secolo sarà l'umanità stessa a semplificare il proprio modo
di comunicare, riducendo a due gli idiomi correntemente utilizzati".
Mandarino contro inglese, dunque, e non è solo una contesa
culturale. Da quest'anno il primo ha conquistato il record di
incremento in Giappone, Corea del Sud, Usa, Ue, Africa e Brasile.
L'inglese perde terreno anche a favore dello spagnolo, in Europa si
assiste al ritorno del tedesco, mentre le imprese editoriali
lamentano l'insufficienza di libri, insegnanti e risorse per
l'apprendimento del "cinese". L'Unesco stima un fabbisogno globale
di docenti prossimo ai 20 mila all'anno e Pechino la scorsa
settimana ha chiesto ai propri emigrati di prestarsi a tenere corsi
serali in istituti superiori e atenei stranieri. Un anno senza
pratica e senza esercizio, l'assenza di soggiorni in Cina, e i
risultati sfumano. "Il problema - dice il professor Li Quan - è che
non c'è gara tra la passione dei cinesi che studiano inglese e
quella di questi che si applicano al mandarino. Il risultato è che
la Cina comprende l'Occidente, ma non viceversa. E' tempo per
certificare i livelli progressivi di conoscenza del mandarino con
attestati riconosciuti e da rinnovare, come avviene per l'inglese".
Non sapere il mandarino è il nuovo incubo di uomini d'affari e
professionisti e per la Cina è un successo senza precedenti. Perfino
i contratti iniziano ad adottare gli ideogrammi e nelle trattative
politiche e commerciali le delegazioni di Pechino pretendono di
esprimersi nella lingua madre. E' lo scenario per il 2050: due
miliardi di parlanti mandarino, opposti a 500 mila di anglofoni.
Quattro a uno, come il peso economico, il valore della valuta e le
proprietà detenute all'estero. Pochi oggi sanno dire grazie ad un
cinese, ma nessuno ignora cosa vuol dire "thank you". Non sarà più
così. Lezione numero uno: "Xie Xie". Meglio procurarsi un manuale
made in China, Pontida compresa, se si ambisce ad un posto di
lavoro. Altrimenti si ingrosseranno le file degli analfabeti
sopravvissuti alle crisi dei debiti sovrani: e anche ordinare un
espresso al bar cinese sotto casa, potrebbe diventare un'impresa.
UNA LEGGE pensata quando non esistevano i test Invalsi, la seconda
lingua, né le scuole medie a indirizzo musicale. Nell´ultimo esame
svolto, lo scorso giugno, in seicentomila hanno dovuto affrontare
almeno tre prove scritte (italiano, matematica-scienze e lingua
straniera), due prove Invalsi (i test sulla conoscenza
lessico-grammaticale e sui principi matematici) più un esame orale
che tendenzialmente ruota attorno a una tesina preparata dallo
studente su più discipline, ma che poi può essere portato dalla
commissione esaminatrice a un controllo su tutte le materie studiate
nel triennio. Di più, in alcune scuole medie a vocazione linguistica
viene richiesto lo scritto anche per una seconda lingua (e così
diventano sei, compresi i test, le prove scritte).
È un esame duro, quello delle medie, probabilmente troppo duro. Ieri
a pranzo all´Hotel Minerva, nel centro storico di Roma, il ministro
dell´Istruzione ha rivelato che si sta correndo per provare ad
«alleggerire e accorpare» l´esame di Stato già quest´anno. In
particolare, i suoi tecnici (segnatamente Max Bruschi, consigliere
del ministro) stanno lavorando alla soppressione dello scritto di
matematica, che sarebbe riassorbito da test Invalsi più ricchi e
articolati. Si sta valutando se sia il caso di allargare i test
anche alla prova d´inglese, cancellando l´inglese scritto e
mantenendo come unica prova scritta l´italiano (con titoli scelti
dalle commissioni interne delle singole scuole). In una prossima
circolare, ma potrebbe anche essere un documento definitivo, si
dovrebbe lasciare maggiore libertà alle singole scuole e alla loro
vocazione per la costruzione degli orali e degli scritti ridotti. I
test Invalsi, ovviamente, restano uguali per tutti sul territorio.
Non saranno toccate le novità già introdotte sotto la reggenza
Gelmini: l´ammissione all´esame e la valutazione finale (per i
promossi) restano espresse in voti dal sei al dieci.
«Una semplificazione è un processo che non richiede molto tempo»,
dicono al ministero. In queste ore si sta decidendo, entro gennaio
ogni novità dovrà essere formalizzata e comunicata a provveditorati
e istituti. «Vorrei alleggerire l´esame finale», ha detto il
ministro, «ma ritengo che il ciclo delle medie debba restare
impegnativo. Le valutazioni dell´Ocse certificano che tra le
elementari e le medie c´è un brusco abbassamento della qualità e la
stretta sulla selezione all´esame è diventata necessaria per non
pagare i prezzi di cattive medie nei primi anni delle superiori».
Nell´incontro con i giornalisti il ministro Gelmini ha reso pubblici
i dati a lungo oscurati sui "bocciati" delle ultime quattro
stagioni. All´esame di terza media "l´effetto severità" si è
materializzato nei primi due anni di governo toccando il picco del
5,1%, ma già nel 2011 è tornato a livelli inferiori al 2009 (il
4,5%). Tra l´altro, l´anno scorso si è toccato il record dei
promossi all´esame di terza: il 99,6%. Sul fronte "dati sui
bocciati", come rivelato da "Repubblica", sono in calo quelli dei
primi quattro anni delle superiori (dal 15,5% al 13,2%). Per quanto
riguarda la Maturità, dai 15.630 non diplomati del 2006 si è passati
a 34.856, oltre il doppio. I "non ammessi" all´esame hanno raggiunto
il picco del 5,9% nel 2010, scendendo poi al 5,3%. Come si vede, la
"linea della severità" non è confermata dalle aliquote dei bocciati.
Sulla maturità, al Sud si confermano i "voti facili". In Calabria
quasi il dieci per cento si diploma con 100 o 100 e lode contro il
4,3 per cento della Lombardia. «Con l´istituzione del test
post-maturità», ancora il ministro, «daremo giustizia di questa
sperequazione e offriremo ai migliori promossi tra i cinque e i
diecimila euro l´anno per mantenersi all´università».
Allarme sostegno, infine. Nonostante il record di insegnanti, 96
mila, c´è un aumento esponenziale nelle scuole dei portatori di
handicap. «La situazione è fuori controllo, bisogna fare una
verifica sulle certificazioni delle Asl», il ministro. «L´Istruzione
è fuori budget per 150 milioni e ho scritto a Tremonti che questo
surplus di spesa se lo carichi l´Economia».