SCUOLA

Caro ministro, nascondere i bocciati
non risolve i loro problemi

di Tiziana Pedrizzi il Sussidiario 5.10.2011

La vicenda dei dati occultati dal Miur sui risultati relativi a promozioni e bocciature dell’anno scolastico 2010-11 sembra quanto meno sconcertante. Nonostante la campagna sulla severità e la normativa prodotta, pare che i trend di bocciature e promozioni siano rimasti invariati ed anzi siano moderatamente andati in direzione opposta a quella voluta dal Ministro – motivo per cui si sono nascosti i dati.

Diamo per scontato che in un paese civile queste cose non avvengono. E che perciò sarà sempre troppo tardi quando i dati salteranno fuori. Ma questa vicenda si presta ad almeno altre due considerazioni.

La prima è che ci voleva una bella ingenuità – oltre che arroganza – a pensare che la scuola italiana non fosse in grado, volendo, di eludere una normativa che, soprattutto attraverso l’obbligo di dare tutte sufficienze per ammettere agli esami, si proponeva di volere finalmente reintrodurre la serietà nella scuola italiana. Sana severità contro decadente lassismo. La scuola italiana è come l’Italia del primo millennio, dopo la fine dell’Impero romano. Sui suoi territori si sono fiondate le cavallerie unne e longobarde, la fanteria bizantina e franca – dei pedagogisti e degli esperti scolastici si intende. Il popolo italico di adelchiana memoria, sotto i suoi “fori cadenti”, si è acconciato ed ha generato una propria cultura della sopravvivenza. La scuola poi dappertutto è, per sua missione, un luogo di trasmissione e di conservazione e non certo di innovazione continua e perciò anche i mutamenti meglio accolti – e non era questo il caso – richiedono tempo per dare i loro frutti.

Una delle cose più importanti che un preside deve sapere è che le decisioni sui “passaggi” competono al Consiglio di classe e che perciò anche il livello voti. Speriamo che nella fantasmagoria degli zoppicanti quesiti recentemente sfornati dal Miur per la selezione del concorso a preside ci sia qualcosa in proposito. Normativa vecchia, mai abrogata, che non mirava di per sé a promozioni generalizzate ed eccessive, ma voleva solo rinforzare una collettiva responsabilità educativa dei gruppi di docenti che formano i Consigli di classe. Perciò, anche se un docente di matematica o di greco si presenta corredato di tutti gli spunzoni possibili per blindare i suoi 4, la decisione della maggioranza dei colleghi può, se “adeguatamente motivata”, operare tutte le transustanziazioni possibili verso il famoso 6.

Del resto, non succede solo in Italia. Una delle ultime pubblicazioni di Eurydice – l’agenzia europea che analizza i diversi aspetti dei sistemi educativi dei Paesi membri – è stata dedicata all’istituto della ripetenza. Per ora la ricerca si è limitata alla fascia dell’obbligo scolastico, privilegiata in ragione del suo interesse sociale. Uno dei risultati delle ricerca è che, anche nei sistemi che prevedono la ripetenza (paesi di tradizione latina e sotto l’influenza della cultura germanica), le pratiche delle diverse scuole nazionali si orientano in modo diverso. In alcuni di questi Paesi le percentuali delle bocciature sono alte, in altri inconsistenti. Questi diversi atteggiamenti sono evidentemente il risultato di diverse culture educative e pedagogiche, a loro volta riflesso dell’ethos del Paese.

Nessuno stupore pertanto che le norme sfornate in proposito negli ultimi anni non abbiano avuto effetti concreti. Un ethos rigoristico applicato solo alla scuola ha scarse possibilità di essere preso in seria considerazione. Ma è poi un così gran male se ciò non è avvenuto?

Bocciare, lo si può fare con diverse finalità: sanzionare atteggiamenti di non accettazione delle regole – ed in ciò non c’è di per sé nulla di male – oppure cercare di innalzare il livello di competenze dei giovani, spingendoli ad impegnarsi di più e permettendo loro di assimilare in un tempo più lungo quanto non erano riusciti a fare.

Il fatto è che è abbastanza dimostrato che questo secondo obiettivo viene poco raggiunto. Negli anni novanta molte ricerche a livello internazionale (non italiane!) avevano dimostrato che gli studenti ripetenti non riuscivano a “colmare le lacune”. Ma si trattava di numeri limitati. Poi però è arrivato il solito Pisa. Il quale ha dimostrato – a livello di comparazione internazionale – che i Paesi che non bocciano per normativa hanno livelli di apprendimento dei quindicenni più alti di quelli che lo fanno. La spiegazione che gli analisti Pisa ne danno è che gli insegnanti che sanno di poter risolvere i “problemi” in questo modo – cioè bocciando – non si danno da fare per utilizzare strumenti più efficaci caratterizzati dalla personalizzazione dell’apprendimento. Si potrebbe dire che non si tratta di fenomeni legati da rapporti causali, ma di realtà parallele. Paesi più generalmente e storicamente alfabetizzati (donde i loro alti livelli) hanno meno bisogno di ricorrere a misure così drastiche.

Ma, se passiamo ad esaminare quel che succede all’interno delle singole nazioni e guardiamo al nostro Paese, scopriamo che a questo proposito la risposta di Pisa è sempre la stessa.

Costantemente in Pisa 2000, 2003, 2006 e 2009, quando si va ad indagare attraverso le analisi multilivello quali sono le caratteristiche degli studenti italiani correlate a bassi livelli di apprendimento, il fatto di essere ripetente lo si trova sempre in prima fila. Cioè: gli studenti che a quindici anni non frequentano la seconda superiore come dovrebbero, ma la prima superiore o addirittura la terza media sono quelli che hanno i peggiori risultati. Aver ripetuto non ha migliorato la loro situazione.

In conclusione, anche se le intenzioni – innalzare il livello culturale dei giovani italiani – erano buone, lo strumento scelto si è rivelato inefficace, perché non ha ottenuto gli effetti voluti. E, comunque, questi effetti (un incremento delle bocciature) non sarebbero serviti. Senza contare il fatto che in Italia per le fasce più deboli della popolazione scolastica – che sono poi quelle che vi incorrono – la bocciatura non si traduce nel rifare con buona lena l’anno, avendo capito la lezione, ma diventa abbandono. E’ il caso di ricordare che il 19,2% dei giovani italiani fra i 18 ed i 24 anni ha solo la licenza media e non frequenta alcuna forma di specializzazione professionale.

Forse certificazioni attendibili dei livelli effettivamente raggiunti, ottenute anche attraverso valutazioni standardizzate esterne e scollegate da bocciature e promozioni, avrebbero maggiore effetto. Soprattutto se avessero ricadute serie sui passi successivi di natura scolastica (orientamento alle superiori, ammissione alle università), offrendo al contempo al mondo del lavoro una fotografia più attendibile dei candidati. Ma forse queste sarebbero davvero misure troppo poco lassiste.

In Germania – oltre che in Austria – uno schieramento politico omologo a quello italiano sta patrocinando una diminuzione delle percentuali di bocciatura. Sorprendente lassismo di Angela Merkel? O non piuttosto una prua volta verso il 2020 e non verso il 1950?