SCUOLA

Bertagna: cinese o inglese,
comunque non impariamo le lingue

intervista a Giuseppe Bertagna il Sussidiario 21.10.2011

Per primo è arrivato, qualche giorno fa, il Financial Times, con un articolo sulla popolarità crescente di cui gode la lingua cinese nelle scuole d’occidente. Il «soft power» della Cina che si diffonde in modo capillare in tutto il mondo, anche attraverso quegli strani ideogrammi ai quali gli uomini d’affari non sembrano più capaci di rinunciare. Non solo loro, ovviamente, come confermano i numeri citati ieri da Repubblica: se «nel 2000 erano poco più di due milioni i non cinesi che tentavano di imparare gli ideogrammi del mandarino», «oggi sono 50 milioni» e scuola e università non riescono a far fronte alla domanda. E noi? L’ignoranza degli italiani in fatto di conoscenza delle lingue straniere è opinione diffusa; anche se i dati di una ricerca citata ieri da «Avvenire» sembrano smentirla. Prima di dichiarare una inversione di rotta, però, occorre la massima cautela, perché se è vero che l’85 percento dei ragazzi italiani tra i 17 e i 23 anni dichiarano di sapere l’inglese, alla pari dei loro colleghi tedeschi e polacchi, e più di spagnoli e francesi, sapere usare la lingua, cioè possedere una «competenza comunicativa» reale ed efficace, è un altro paio di maniche.

È dello stesso avviso anche Giuseppe Bertagna, pedagogista. «Perché se si chiede quanti italiani studiano inglese, è un conto, quanti invece lo sanno, è un altro. Il primo rilievo, in ogni caso» dice Bertagna a Ilsussidiario.net «è che non abbiamo mai avuto una politica nazionale delle lingue straniere; ci siamo sempre adeguati alla cultura dominante».

Cosa c’entra la cultura dominante, professor Bertagna?

«C’entra, perché quando il francese era la lingua internazionale, studiavamo tutti il francese, quando l’inglese è diventato lingua commerciale mondiale, ci siamo buttati sull’inglese, adesso che lo spagnolo sta diventando forte perché è la lingua maggioritaria del Bric, abbiamo preso di mira quello. Il problema è che abbiamo sempre una politica delle lingue basata più sull’utilità che sulla formatività delle lingue».

E dire che l’utilità non sembra un dettaglio poi così trascurabile. Non le pare, professore?

«Certo, tutto ciò che è utile è anche buono, ma le persone non vivono solo di utilità, ma innanzitutto di verità. Intendo dire che se l’apprendimento della lingua straniera, come qualsiasi altro contributo di insegnamento, non trova un senso proprio nelle motivazioni e nell’interesse di chi apprende, ha vita breve. La lingua straniera deve diventare una verità esistenziale, una modalità di rapporto col mondo». In pratica? «Quando si è davanti a parole che non si capiscono, e di cui si capisce il significato solo dal conteso» spiega Bertagna «è come se fosse acqua su una lastra di marmo. Non imbeve il terreno e non fruttifica. A livello neurofisiologico, sostantivi, verbi o aggettivi che abbiano un senso e un contenuto emotivo forte per le persone che lo leggono, solo così “imbevono” la coscienza e il cervello».

Ma che cosa non funziona, professore? E dire che da noi si inizia presto, ma gli stranieri sanno sempre le lingue più di noi.

«E paradossalmente, le studiano di meno! È questo il punto. La politica dell’“utilità esterna” fa l’opposto di quello che servirebbe: trasformare la politica di insegnamento scolastico delle lingue in una politica dell’integrazione nazionale. È questa la strada per arrivare all’apprendimento che chiamo esistenziale. Il nostro paese ha il più basso tasso demografico al mondo, ora abbiamo il 10 per cento della popolazione immigrata, ma nei prossimi anni aumenterà: avremo il 20 percento di popolazione che proviene da una cultura diversa dalla nostra. L’approccio dev’essere non “libresco”, ma culturale nel senso pieno del termine. Solo questo favorisce una immedesimazione con le ragioni dell’altro».

Dunque stiamo tanto sui banchi senza combinare quello che altri fanno in modo migliore e con minor tempo. E il colmo è che quando nei curricula scriviamo conoscenza «scolastica» di una lingua straniera, vuol dire che in pratica non la sappiamo usare.

«Esatto. Il problema, come spesso accade» prosegue Bertagna «è di metodo. Perché ci sono tre modi di apprendere la lingua straniera: uno è empirico, è lo stare in una “comunità” che parla quella lingua: penso allo stage, al viaggio, alla tv, a internet, ai film il lingua originale, insomma a tutto quello che può aiutare l’immersione in una cultura nativa diversa dalla nostra. Il nostro errore è non usare questo sistema nei primi anni di vita dei ragazzi. Quando lo si è proposto, c’è stata la sollevazione delle categorie interessate, perché lo può fare innanzitutto la famiglia, e la scuola solo di concerto con la famiglia, non da sola. Il secondo modo è quello critico-riflessivo, che ruota intorno alla grammatica scolastica tradizionale. Se imparo su una lingua che però non esercito, è ovvio che devo supplire dentro la scuola con il primo metodo. E l’ultimo stadio è quello esistenziale. Qui contano i testimoni, i nativi che parlino di situazioni autentiche, coinvolgendo la nostra narrazione biografica. Il nostro errore capitale è avere “compattato” sulla scuola questi tre livelli, chiedendole l’impossibile. E così facendo siamo rimasti indietro».

Da dove cominciare per invertire la tendenza?

Risponde Bertagna che «bisogna trasformare quello che è percepito dalla scuola come una concorrenza indebita della famiglia in una alleanza opportuna e vantaggiosa. Tutto quello che è l’esterno della scuola - viaggi, stage, tv... - dovrebbe essere di molto incrementato e stimolato: la scuola ricaverebbe spunti per la sua analisi critico-riflessiva, facendo grammatica non solo formale ma esistenziale, e potrebbe finalmente arrivare a lambire il terzo livello, quello decisivo. Così, imparare una lingua diventerebbe finalmente anche un fattore di identità collettiva, di educazione al dialogo e infine di vera maturità».