L’invito al conformismo
dietro i test per la selezione dei presidi

 Giorgio Israel Il Messaggero, 15.10.2011

È necessario trarre un primo bilancio della selezione preliminare mediante test per il concorso a dirigente scolastico. Ricordiamo la pesante procedura escogitata: i candidati dovevano studiare una “batteria” di circa 5700 domande con 4 risposte, di cui una esatta; perciò memorizzare tra quasi 23.000 risposte quelle esatte per individuarle in 100 minuti tra le 100 domande sorteggiate per la prova. Hanno fatto scalpore le sciatterie e gli errori madornali contenuti nella “batteria”, che hanno costretto il ministero a scartare un migliaio di domande.

Tuttavia, si è parlato poco di altri aspetti ben più sconcertanti. In primo luogo, delle assurdità logiche e persino della comicità di certi quesiti.

La risposta esatta alla domanda su come deve essere l’ambiente scolastico era: «pulito, accogliente e sicuro». Tra le risposte sbagliate v’era: «pulito, salubre, accogliente e sicuro». Questo perché l’aggettivo “salubre” non appare nella Carta dei servizi scolastici. Ogni commento è superfluo. Alla domanda su cosa caratterizzi una “valutazione oggettiva”, la risposta esatta era “pubblica e trasparente”. Di conseguenza, anche una valutazione arbitraria e magari folle è oggettiva purché enunciata in modo pubblico e trasparente.

E si potrebbe continuare con esempi dello stesso tenore. Ma nella “batteria” vi era di molto peggio: una quantità rilevante di domande concettuali per le quali nessuno ha il diritto di imporre la risposta “giusta”.

Con che diritto si da una risposta univoca alla domanda: «quale definizione di cultura tra le seguenti è maggiormente condivisa all'interno delle scienze sociali»?

Perché per diventare preside si deve aderire alla definizione ministeriale di comportamento prosociale o di subcultura?

O credere che la «visione di sviluppo di un’istituzione scolastica» è «l’aspirazione verso un futuro immaginato, una descrizione vivida…» anziché «una dettagliata definizione di piani, progetti e azioni»? Perché deve essere obbligatorio essere cultore delle opere di uno psicologo specialista dei disturbi specifici di apprendimento? Tutta la parte pedagogica è un trionfo del politicamente corretto, del costruttivismo più conformista, della pretesa che i presidi siano cloni che pensano tutti allo stesso modo, conoscono le stesse teorie e aderiscono alle verità ministeriali.

Anche nelle 100 domande selezionate per la prova si è preteso che i candidati conoscessero la definizione della società dell’informazione di Manuel Castells, la “filosofia per bambini” di Matthew Lipman, la visione di Stuart Hall delle dinamiche di rapporto tra un testo e i suoi lettori, che dicessero che la coesione di un gruppo è resa possibile dalla consapevolezza che il conflitto è fisiologico, e dessero una certa definizione di processo decisionale. Poi, dovevano anche sapere che «per cambiare le 2 dimensioni della carta su cui stampare un foglio di calcolo si deve [sic] modificare le dimensioni della carta dal layout di pagina»…

Ma l’aspetto farsesco non deve distrarre da quello più grave: la pretesa di indottrinamento ideologico, il brutale invito al conformismo: se vuoi diventare preside deve pensare come dettiamo noi, non hai il diritto di essere una persona intelligente e preparatissima che ha idee autonome circa il significato della cultura, non hai il diritto di non condividere (e persino ignorare) le teorie di Lipman, Stuart Hall, Castells oaltre opinabili tesi di metodologia pedagogica.

Diciamolo chiaramente: questa non è roba da paese democratico, questa è roba di stile sovietico o da Minculpop. Le stesse cucine ministeriali in cui vengono confezionati questi piatti ammoniscono quotidianamente che deve essere superata la lezione ex-­‐cathedra, la didattica “impositiva”, che occorre passare dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento, e poi si riservano il potere di indottrinamento più impositivo ed ex-­‐cathedra che si possa immaginare.

Chi scrive ha sempre difeso la scuola statale, ma una simile inaudita esplosione di statalismo totalitario è il peggior servizio che si possa farle. Non si può dire che il ministro Gelmini condivida concezioni stataliste e la stampa ha dato conto della sua reazione severa alla cattiva gestione della vicenda.

Tuttavia, per chiudere la questione il ministero ha scelto uno stile coerente con quello di tutta l’operazione.

Sono stati messi in rete i nomi dell’ottantina di “esperti” autori di domande e risposte.
È un modo di procedere che sa di gogna e di scarico delle responsabilità. Difatti, è incredibile che tutti gli ottanta abbiano lo stesso grado di responsabilità, e ancor meno che tra di loro si sia prodotta per incanto una totale omogeneità ideologica.

La questione non può essere chiusa così. Restano senza risposta le domande su chi abbia ideato una simile procedura, chi e come l’abbia gestita e ne abbia condotto le varie fasi, chi debba rendere conto dell’accaduto.

Sarebbe inaccettabile che, mentre si parla da mane a sera di valutazione e di premiare il merito, mentre si vuol giudicare l’attitudine gestionale dei futuri presidi, l’accountability valga soltanto per loro, mentre i progettisti di una siffatta miscela di incompetenza e di prepotenza ideologica non debbano rispondere del loro operato.