SCUOLA
Le 4 domande scomode che attendono Giovanni Cominelli il Sussidiario 16.11.2011 La lettera con le 39 domande spedita, la scorsa settimana, dall’Unione europea al governo Berlusconi prima del precipitare della crisi non conteneva quesiti marziani. Il dibattito pubblico italiano ha posto da anni gli stessi interrogativi e alcune norme hanno già abbozzato delle risposte a qualcuno di essi. Ma il problema è proprio questo: che tra l’individuazione dei temi, l’elaborazione delle risposte e la loro implementazione si stende non il mare navigabile, ma, da parecchi anni a questa parte, una palude senza vento e senza onde.
Sicché, almeno per quanto riguarda i
punti 13-16 della lettera, la loro formulazione è piuttosto un
richiamo alla coerenza rispetto a misure già decise che il
suggerimento invasivo di nuove misure. Sono state invocate le ragioni più diverse (tipo la privacy, alibi italico supremo, o le resistenze politico-sindacali o una non meglio identificata “opinione pubblica”, rispetto alle quali la politica si è arresa), ma il fatto è che ai cittadini che, avendo pagato le tasse, chiedono conto del destino del loro investimento, viene negata l’informazione sull’esito. L’accountability è rimasta un lemma inglese, pronunciato rotondamente e altrettanto disatteso. Eppure, basterebbe render noti i risultati per costringere le scuole ad un esame di coscienza pubblico. E’ infatti intollerabile che il Ministero e le scuole trattino i dati raccolti quasi fossero proprietà privata dello Stato, ossimoro evidente, invece che proprietà pubblica dei cittadini tutti e dei genitori e dei ragazzi. Quando i dati saranno resi pubblici, allora si metterà anche in movimento una dinamica di cambiamento. Intanto, perché le famiglie, se insoddisfatte delle performances di una scuola, incomincerebbero a cercarne un’altra per il miglior bene dei figli, là dove questa scelta fosse possibile. Oppure eserciterebbero pressioni sulle scuole, senza ridursi al sindacalismo aggressivo ed egoistico, esercitato a favore dei propri cari pargoli. E se una scuola non funziona, se i risultati degli alunni sono scadenti? In questo caso verrebbero a galla due questioni, che furono già spinte sotto il tappeto all’epoca della Moratti. La prima: che l’Invalsi è strumento prezioso per individuare i risultati degli apprendimenti, ma non ha la possibilità di andare più in profondità nell’indagine sulle scuole, anche perché la correlazione tra i risultati degli studenti e le performances professionali degli insegnanti e dei dirigenti è piuttosto incerta. Per andare in profondità, dovrebbe disporre, come è il caso dell’Ofsted, di un’altra metodica: per es. l’indagine diretta svolta da un corpo di ispettori. Questa ipotesi di istituzione dell’Invalsi fu esclusa dalla Moratti con plauso universale politico-sindacale. Non fosse mai che le scuole venissero chiamate a rispondere del loro operato e, qualora questo si ripetesse negativo nel tempo, venissero chiuse.
Ed è questa la seconda
questione sepolta che risorge nella domanda europea: che si fa, se
una scuola fallisce? Se un ragazzo fallisce, viene, ahilui!
respinto. E se una scuola fallisce? Lo Stato continua a finanziarla.
Insomma: la valutazione esterna potrebbe mettere in moto le energie
della società civile e dei genitori. Per fare che cosa? Perché
finalmente il governo prenda sul serio i due principi-pilastro già
enunciati dalla Conferenza nazionale della scuola, Ministro
Mattarella, del 1990: autonomia radicale, poi delineata precisamente
dal DPR 275/99 di Berlinguer, e severa valutazione esterna. E per
passare a un terzo stadio, quello “inglese”: the Funds follow the
Pupils. Cioè: finanziamento dei ragazzi e non delle scuole. Il che è
come dire: passare al riconoscimento del fatto che lo Stato è solo
un Provider, per ora quasi esclusivo (il 94%), ma che il
Commissioner dell’istruzione/educazione sono le famiglie e la
società civile.
In parole semplici:
occorre una legge sullo stato giuridico. E difendere con forza le
prerogative del Parlamento – che rappresenta, o dovrebbe
rappresentare, il Bene comune del Paese – dall’abitudine dei
sindacati di circoscrivere il terreno di elaborazione o di
applicazione delle leggi alla loro inclusione nei contratti. La
definizione della figura pubblica del docente riguarda il Paese
intero e non i sindacati dei docenti. |