Una scuola media di nome e di fatto Francesco Antonioli Il Sole 24 Ore, 29.11.2011 È l'epicentro di tutti i guai della scuola italiana? La secondaria superiore di primo grado – riformata nel lontano 1962 come media unica – è davvero l'anello debole di tutto il nostro sistema dell'istruzione dell'obbligo? Leggendo il terzo «Rapporto sulla scuola in Italia 2011» della Fondazione Giovanni Agnelli (Laterza, pagg. XII-168, euro 20, in libreria agli inizi di dicembre) si è portati a rispondere di sì. Di chi è la responsabilità? Dei preadolescenti e della loro complicata stagione di crescita? Degli insegnanti? Della scuola stessa? «Un po' tutti e tre questi elementi insieme», spiega Andrea Gavosto, l'economista chiamato a dirigere la Fondazione Agnelli nel 2008 per concentrare le attività di ricerca su tema dell'education (scuola, università, lifelong learning). «Ma certamente è il punto degli insegnanti – aggiunge – quello che rivela le maggiori criticità». L'Italia è il Paese con il calo degli apprendimenti più netto fra elementari e medie. Nei punteggi Timss (Trends in International Mathematics and Science Study) è fanalino di coda, ben al di sotto di Cina, Norvegia, Giappone e Stati Uniti. C'è un sobbalzo: i ragazzi rallentano sensibilmente la loro capacità di apprendimento. Come se non bastasse – in questi tre anni difficili – si spalanca pericolosamente il divario socio-culturale: i buoni risultati in matematica e scienze degli allievi italiani in quarta elementare (rispettivamente 503 e 516 nei punteggi Timss; valore medio standardizzato per i Paesi che partecipano all'indagine: 500) peggiorano molto nella scuola media penalizzando chi ha genitori con basso livello d'istruzione. Il gap non sarà più colmato, contraddicendo l'obiettivo di uguaglianza di opportunità che dovrebbe offrire la scuola. «Purtroppo – chiosa Gavosto – sul fronte dell'equità la scuola media ha perso ogni battaglia, ponendo le basi per ritardi incolmabili. Ed equità non si fa puntando al ribasso». I nostri preadolescenti – non certo diversi per comportamenti tipici e interessi dai loro coetanei europei – hanno un rapporto peggiore con la scuola. Si trovano male e lo dicono. Gli insegnanti – ora 178.400 contro i 187.200 del 1970-1971 – se hanno seguito l'andamento demografico della popolazione studentesca meglio dei loro colleghi di primaria e superiori (molti di più rispetto alle necessità), sono anziani. L'età media è 52,1 anni. Molti sono over 60. Protagonisti (o vittime) di un turnover vorticoso (il 35% non resta più di un anno nella stessa scuola), vengono giudicati negativamente dai docenti degli altri gradi; hanno una scarsa autostima, sono insoddisfatti della loro formazione e poco attrezzati per le sfide educative poste dai teen-ager in erba (di cui potrebbero essere addirittura i nonni). Ecco perché la Fondazione Agnelli spiega a chiare lettere che nei prossimi due-tre anni avremo un'occasione irripetibile, con decine di migliaia di docenti che andranno in pensione. «Un'opportunità unica di ricambio per insegnanti di tipo nuovo – sottolinea Andrea Gavosto –: preparati per questa età, attrezzati sia sulla disciplina sia sulla didattica, formati per impegnarsi esclusivamente in questo livello. Dovrebbero essere assunti tramite chiamata diretta o concorso dedicato alle scuole medie». Il Rapporto aggiunge un pacchetto di cinque proposte: personalizzazione dei percorsi educativi; più lavoro di équipe da parte dei docenti; apprendimento cooperativo per favorire "l'effetto dei pari" (meno lezioni frontali e con tecniche nuove); modello dell'Istituto comprensivo, che potrebbe ammortizzare il passaggio da un ciclo all'altro. Soprattutto, "essenzializzazione": poche materie, ben coltivate, con altre opzionali. Un'operazione, quest'ultima, non semplice, visto che nel Belpaese convivono ancora due sistemi non armonizzati di indicazioni didattiche nazionali (ministri Moratti, nel 2004, e Fioroni, nel 2007)... C'è anche qualcosa che non va fatto, secondo la Fondazione Agnelli: la riforma dei cicli, per esempio, su cui si arenarono i progetti sia di Berlinguer-De Mauro sia della Moratti. «Non ci sono modelli europei che risultino più efficaci – è ancora Andrea Gavosto a parlare – Così come non siamo convinti che all'Italia manchi una filiera professionalizzante, analoga a quella tedesca, che indirizzi i ragazzi, fin da un'età relativamente precoce, verso mestieri pratici. Si tratta invece di trasformare profondamente il concetto di equità: ieri veniva misurata dall'opportunità di accesso a scuola; oggi, invece, deve contare l'opportunità di successo, cioè la qualità dell'insegnamento e i livelli di apprendimento». Il governo di Mario Monti e il neo-ministro dell'Istruzione Francesco Profumo dovrebbero dunque aprire il dossier della scuola media? «Assolutamente sì, perché l'urgenza c'è tutta – conclude Gavosto –. I tagli della Gelmini, anche se l'opinione pubblica è stata concentrata di più sulle elementari, hanno colpito maggiormente proprio le medie. È questo il momento per dare correttivi a una scelta per il futuro. La sostituzione degli insegnanti è strategica. Dovranno essere chiamati tutti a grande responsabilità, sindacati per primi. Si tratta di coniugare in chiave moderna ciò che ispirò la riforma della media unica nel 1962: la giustizia sociale. Per abbattere il tasso di abbandono scolastico del 20% nelle superiori – l'Italia è la peggiore nella media dei Paesi Ocse – bisogna ripartire da qui. La priorità della nostra scuola, a tutti livelli, è recuperare i troppi studenti che vengono abbandonati ai margini dei percorsi scolastici sulla base non del merito, ma delle conseguenze che l'origine lo svantaggio sociale hanno sui loro risultati scolastici». |