Cosa fare delle pensioni di anzianità

 Sandro Gronchi La Voce.info, 15.11.2011

Come abbiamo messo in evidenza nella proposta di riforma pubblicata su questo sito, le pensioni di anzianità restano il grande nemico del sistema pensionistico. La riforma Dini ammetteva il pensionamento flessibile, ma assumeva il principio di corrispettività tra pensione e contributi versati. Gli interventi successivi hanno soffocato quella flessibilità, che invece va restituita al sistema. Si possono anticipare alla fase transitoria le regole previste a regime per il contributivo. Le pensioni di anzianità dovrebbero essere sottoposte a una correzione attuariale che dia conto della loro maggior durata rispetto alla pensione di vecchiaia.

Le pensioni di anzianità restano il “grande nemico” del sistema pensionistico. Vanno tuttavia contrastate con strumenti in grado di conciliarle con la flessibilità che occorre contestualmente restituire alle pensioni contributive.

 

I TENTATIVI DEGLI ANNI NOVANTA

In un frangente ancor più grave dell’attuale, nel 1992 un governo tecnico presieduto da Giuliano Amato realizzò un’incisiva riforma che aumentò di cinque anni l’età di vecchiaia, estese il calcolo della pensione all’intera vita lavorativa e limitò l’indicizzazione al mero recupero dell’inflazione. Invece, non osò intervenire sul tabù costituito dalle pensioni di anzianità.

Dopo i tentativi del primo governo Berlusconi, che ne determinarono la caduta, nel 1995 della questione fu incaricato un altro governo tecnico presieduto da Lamberto Dini. Evitando un nuovo attacco frontale alle pensioni di anzianità, Dini trovò la quadra con una riforma, organica e innovativa, che, da un lato, ammetteva il pensionamento flessibile sfumando la tradizionale distinzione fra vecchiaia e anzianità, mentre dall’altro assumeva il principio di corrispettività in base al quale la pensione deve restituire i contributi versati. La flessibilità non poneva fine al pensionamento precoce (sebbene ammesso solo dopo i 57 anni d’età). Anzi, lo consentiva a prescindere dall’anzianità contributiva. Tuttavia, la corrispettività ne sterilizzava il costo consentendo rate annue di pensione più basse in presenza di tempi di restituzione più lunghi.

 

GLI ERRORI DEGLI ANNI DUEMILA

Sfortunatamente, alla riforma “contributiva” furono concessi tempi biblici di attuazione, durante i quali le pensioni di anzianità sarebbero rimaste la spina nel fianco del sistema pensionistico italiano. Ciò spiega i provvedimenti di Berlusconi nel 2004 (scalone) e di Prodi nel 2007 (scalini). Entrambi ebbero l’imperdonabile torto di affrontare il problema transitorio delle pensioni di anzianità con strumenti permanenti, rivolti anche alle future pensioni contributive nonostante fossero con esse totalmente incompatibili. I requisiti anagrafico‑contributivi per l’accesso al pensionamento anticipato furono inaspriti al punto da soffocare quella flessibilità che tanta parte aveva avuto nel processo politico di approvazione della riforma Dini e che resta un connotato irrinunciabile del modello contributivo (oltre a essere utile al mercato del lavoro).

 

I RIMEDI ANCORA POSSIBILI

Gli interventi richiesti dall’Europa sono un’occasione da non perdere per porre rimedio. In primo luogo, occorre ristabilire una fascia d’età sufficientemente ampia entro la quale ammettere al pensionamento i lavoratori “contributivi” (che hanno avviato, o avvieranno, il rapporto di lavoro dopo il 1° gennaio 1996). Non sarebbe utile ruotare all’indietro le lancette dell’orologio: piuttosto che da 57 a 65 anni come prevedeva la riforma Dini, l’odierna fascia potrebbe andare da 61 a 67 come in Svezia. In tal caso, sarebbe subito necessario un nuovo vettore di coefficienti di trasformazione. Inoltre, gli estremi (inferiore e superiore) della nuova fascia potrebbero essere agganciati all’evoluzione della longevità con criteri da stabilire dettagliatamente.

In secondo luogo, occorre anticipare alla fase transitoria le regole di accesso previste a regime. In particolare, occorre:

  • fissare a 67 anni l’età di vecchiaia per i lavoratori “retributivi” (che al 1° gennaio 1996 lavoravano da almeno 18 anni) e per quelli “misti” (che alla medesima data lavoravano da minor tempo);

  • consentire, agli uni e agli altri, di accedere alla pensione di anzianità (definita, ad esempio, da una contribuzione di almeno 37 anni) in età compresa fra 61 e 66 anni.

Il punto fondamentale è che l’intera pensione spettante agli uni e la parte retributiva della pensione spettante agli altri devono essere assoggettate a una correzione attuariale che dia conto della loro maggior durata rispetto alla pensione di vecchiaia.

Pragmaticamente, la correzione potrebbe fare riferimento ai coefficienti di trasformazione usati per il calcolo delle pensioni contributive, cioè consistere nella moltiplicazione per una frazione (inferiore all’unità) che porti al denominatore il coefficiente dei 67 anni e al numeratore quello dell’età di pensionamento prescelta.