La scuola dei burocrati
si perde in chiacchiere e rinuncia a insegnare
Recensione dell'ultimo libro di Paola Mastrocola
dal
blog di Giorgio Israel, 2.3.2011
A me, che negli ultimi
anni ho dedicato non poco tempo a dare un modesto contributo a
rimettere in sesto il disastrato baraccone della scuola, la lettura
del libro di Paola Mastrocola “Togliamo il disturbo” (Guanda) ha
provocato un profondo disagio. Quando si constata l’immensa inerzia
del sistema, l’ostinazione con cui le forze che ne hanno prodotto lo
sfacelo contrastano ogni miglioramento, annidate come sono in ogni
angolo e aggrappate come sono a ricette ispirate all’ideologia
pedagogica più prescrittiva e burocratica che si possa immaginare -
ebbene, di fronte a questo scenario viene da pensare che abbia
ragione Mastrocola nel suo radicale pessimismo che la conduce a dire
che non c’è niente da fare e che è meglio pensare a una scuola
riservata a chi ha voglia di studiare lasciando gli altri liberi di
non farlo.
Sul tema delle prospettive e di cosa si possa fare tornerò, ma
intanto va detto che questo è un libro importante, scritto benissimo
- una lezione di letteratura, tanto per restare in tema - di grande
efficacia descrittiva e intriso dell’emozione di chi vede
dissolversi un mondo che è la ragione di vita di ogni buon
insegnante. È un libro che tutti dovrebbero leggere, per meditare
sull’immagine che propone di una scuola ridotta a luogo di
socializzazione in cui l’ultima delle incombenze è studiare e
acquisire cultura, e sull’analisi delle responsabilità dello
disastro.
A proposito di queste responsabilità, onore alla chiarezza, senza
peli sulla lingua, con cui Paola Mastrocola le denuncia. Inizia col
«donmilanismo» e il suo populismo ipocrita che, disprezzando la
cultura, propone una scuola che «lascia le persone come sono» e
«penalizza i più deboli»: «bassezza comune, mezzo gaudio». Poi viene
il «rodarismo» che, con il richiamo demagogico alla creatività ha
decretato che è una noia lo studio della grammatica, della storia,
della letteratura, cioè proprio degli strumenti della creatività che
Rodari, ovviamente, possedeva. Segue il pedagogismo «democratico»
dei Berlinguer e dei De Mauro, con l’idea della scuola appiattita
sulla «media minima».
Ma è soprattutto coraggioso aver affondato il coltello nella piaga
della «didattica delle competenze» e della mediocre visione
burocratico-mercatista dell’istruzione che domina nei corridoi
comunitari e che è riassunta nelle otto competenze chiave del
Trattato di Lisbona. Questa visione risponde solo alla
preoccupazione di definire criteri di competenze valutabili in sede
comunitaria: allo scopo le culture nazionali sono un intralcio.
Quindi, via nel cestino letterature nazionali, storia, filosofia, e
tutto ciò che fa della scienza non un mero tecnicismo ma un’impresa
culturale. Tutto questo s’impone con la forza delle circolari
amministrative - che hanno dettato anche da noi l’introduzione della
grottesca «certificazione delle competenze» - e porta alla ribalta
un ceto di persone che non hanno mai insegnato, che non hanno
cultura ma che sono «specialisti» dell’istruzione, dediti per la
vita a tale dubbia disciplina; oppure sono funzionari ministeriali
che hanno il coraggio di invocare una «lotta militante» per
distruggere le conoscenze a favore delle competenze. Ne è un
prototipo l’ineffabile Monsieur Thélot, cui il libro dedica uno dei
suoi più divertenti capitoli, che ha avuto un ruolo importante nel
massacro della scuola francese denunciato da tanti insegnanti come
l’eroico maestro Marc Le Bris.
Paola Mastrocola si chiede se l’invasamento collettivo sulle
meraviglie informatiche che dovrebbero cambiare il volto di una
scuola «vecchia» per rispondere alle esigenze dei «nativi digitali»
non sia un inganno per handicappare i giovani ed estirpare
definitivamente lo studio dalla scuola. È indubbio che, dopo aver
letto le tante pagine dedicate all’ambiente scolastico, al modo con
cui i ragazzi vivono, ci si chiede se questa faccenda dei nativi
digitali non sia una colossale balla inventata da chi vuol
informatizzare la scuola per un misto di ideologia e interessi. Di
questi nativi digitali Mastrocola descrive la vita, le fogge
dell’abbigliamento, persino gli odori e la fisicità, con cui
peraltro entra a contatto chiunque salga su una metropolitana
all’uscita da scuola. Altro che asetticità digitale... La corporeità
si prende sempre il ruolo di protagonista e assoggetta a sé
qualsiasi ritrovato tecnico. È il vuoto di senso che
contraddistingue oggi la scuola che causa il rifugiarsi nello
smanettamento informatico e nell’ossessione chattante. Presentare
queste ultime come caratteristiche intrinseche di una generazione è
un rovesciamento truffaldino per perpetrare l’inganno di cui parla
Mastrocola, e così svuotare ulteriormente di senso l’istruzione.
Ma chiunque abbia provato a educare un bambino alla lettura,
facendogli capire il senso della vita che trasmette questa attività,
sa che questo è perfettamente possibile, ieri come oggi. Diciamo
piuttosto che c’è chi non lo vuole.
Venendo alla proposta di Mastrocola, la capisco come un modo per
sottolineare la gravità della situazione. Dopo anni di demagogia del
«successo formativo garantito», che ha posto alla scuola
l’impossibile compito di rendere tutti uguali, si è ottenuto il
contrario: quella che nel ’68 veniva chiamata «scuola di classe»...
Chi ha una famiglia capace di sorreggerlo e trasmettergli cultura se
la cava (anche sul piano del lavoro!), gli altri finiscono ignoranti
e per giunta disoccupati. Vogliamo istituzionalizzare questo stato
di cose? Non credo che Mastrocola lo voglia. Oltretutto, sarebbe una
battaglia contro i mulini a vento perché a questo si opporrebbero
anche le forze che hanno condotto la scuola in questo Stato e che la
vogliono di massa, o per ideologia o perché vogliono ridurla a
macchina di produzione di forza lavoro immediatamente impiegabile:
non capiscono che in una società avanzata questo significa sicuro
declino, ma poco importa. Non credo soprattutto che sia giusto
perché non possiamo tornare indietro rispetto ai principi che hanno
ispirato l’idea dell’istruzione pubblica due secoli fa.
Nelle sue memorie
sull’istruzione pubblica di fine Settecento il marchese di Condorcet
spiegava perché «la società deve al popolo un’istruzione pubblica».
«Avremmo dichiarato invano - osservava - che gli uomini hanno tutti
gli stessi diritti». E dava una sonora lezione agli egualitaristi:
«È impossibile che un’istruzione anche uguale non accresca la
superiorità di coloro che la natura ha favorito di una migliore
costituzione. Ma, per mantenere l’uguaglianza dei diritti, è
sufficiente che questa superiorità non comporti una dipendenza reale
e che ciascuno sia sufficientemente istruito per esercitare da solo
i diritti che la legge gli garantisce senza sottoporsi ciecamente
alla ragione altrui». I burocrati europei e i pedagogisti
«democratici» credono di aver scoperto chissà cosa parlando delle
«competenze del cittadino». Ecco come Condorcet spiegava quella che
oggi viene pomposamente chiamata la «matematica del cittadino»: «Ad
esempio chi non sa scrivere e ignora l’aritmetica, dipende realmente
dall’uomo più istruito, al quale deve costantemente ricorrere. Ma
l’uomo che conosce le regole dell’aritmetica necessarie negli usi
della vita non dipende dallo scienziato che possiede al massimo
grado il genio delle scienze matematiche». Perciò i pedagogisti
«democratici» hanno scoperto l’acqua calda, servendola però in una
salsa indigesta fatta di egualitarismo e di costruttivismo che rende
il composto quanto di meno democratico si possa immaginare.
Cosa fare concretamente
è questione aperta, ma a me pare indubbio che alla scuola di massa
non si possa rinunciare e altrettanto indubbio che non si può
smettere di condurre una battaglia culturale per contrastare
l’ideologia distruttiva del costruttivismo. Proprio a questa
battaglia il libro di Paola Mastrocola ha dato un contributo
importante.