I test usati per punire?

Marina Boscaino Il Fatto Quotidiano, 19.2.2011

A fine anno una nota del Miur ha informato che anche alle superiori saranno somministrati i test Invalsi (Istituto di Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione) in Italiano e Matematica. La discussione sull’obbligatorietà del provvedimento coinvolge molte scuole, anche se dirigenti zelanti negano la discussione ai collegi, titolari delle delibere sull’azione didattica ed educativa e su criteri e attività di valutazione. La Rete pullula di mozioni senza se e senza ma contro l’imposizione del test. È in ballo innanzitutto l’ambiguità del provvedimento, ulteriore esempio della tendenza del governo a legiferare in modo improprio. Le scuole sarebbero obbligate a somministrare i test, ma manca il finanziamento per l’operazione e in più la loro erogazione non è prevista dal contratto di lavoro dei docenti. Molti anche i dubbi nel merito: prove standardizzate – per lo più quesiti a risposta multipla – estranee alle nostre modalità didattiche, volte alle conoscenze più che alle competenze che i test misurano. Non valorizzano il pluralismo delle esperienze, diversificazione delle intelligenze, valore dei saperi critico-analitici: elementi su cui è prevalentemente impostata l’azione didattico-pedagogica.

La scuola democratica non è ostile alla valutazione in sé; è ostile a questa valutazione, ai termini pedestri e punitivi che la convogliano. Il fatto che l’Europa si serva di strumenti simili – ma in altri Paesi vi è una cultura della valutazione ben più sviluppata e scientifica, con finanziamenti, formazione degli insegnanti, riconoscimento dei carichi di lavoro – non è motivo sufficiente per imporre alla nostra scuola (ferita nel suo mandato, vilipesa nelle professionalità, affossata da politiche di tagli scellerati, eufemisticamente definite “riordino e semplificazione”) nuove sferzate provocatorie. Nei Paesi Ue le prove standardizzate nazionali vogliono monitorare e valutare le scuole e/o il sistema educativo nel suo insieme. Oltre la metà dei Paesi ne fa uso. I risultati, insieme ad altri parametri, sono indicatori della qualità dell’insegnamento e dell’efficacia generale di politiche e pratiche didattiche. Lettonia, Ungheria, Austria e Inghilterra si concentrano su performance delle singole scuole e valutazione della loro efficacia educativa. Irlanda, Spagna, Francia, Finlandia e Scozia, invece, sul sistema. Quasi mai a essere valutate sono le prestazioni degli insegnanti, attraverso quelle dei propri studenti.

Qui, invece, la neonata guerra santa della valutazione è indissolubilmente legata a “merito”, premialità, diversificazione di carriera: randello da agitare contro il fannullone che Brunetta e Gelmini vedono in ciascuno di noi. La politica contro la libertà d’insegnamento e per l’omologazione al Pensiero Unico, di cui trasudano i provvedimenti gelminbrunettiani; l’assenza di investimenti significativi dal punto di vista culturale prima che economico sulla valutazione; il dileggio riversato sulla scuola pubblica, giudicata dal premier “gigantesco ammortizzatore sociale e strumento di creazione del consenso”; questi ed altri elementi ci inducono a collegare la nuova tornata di prove Invalsi e la loro surrettizia obbligatorietà con l’uso punitivo e becero che stanno facendo della valutazione. Strumento che sarebbe invece fondamentale in una logica di analisi e comprensione, ad esempio, dei motivi delle “marce diverse” del nostro sistema scolastico; dei differenti bisogni; delle direzioni verso le quali indirizzare una vera riforma della scuola, che transiti attraverso il rispetto del mandato costituzionale e del diritto all’apprendimento e alla cittadinanza consapevole dei ragazzi.