scuola
La nuova "alleanza" tra nativi digitali
e prof può cambiare la scuola
Annamaria Poggi, il Sussidiario
28.3.2011
È ormai quasi retorico dire che le tecnologie digitali hanno
trasformato il modo di comunicare, organizzare la vita, gestire
informazioni e lavorare, perché tutti ormai lo constatiamo
quotidianamente. La tecnologia è ovunque, e la sua repentina
evoluzione, amplificata dal proliferare di sempre nuovi devices e
applicazioni, consente di essere sempre connessi con la Rete in
qualunque posto ci si trovi. Le parole chiave, oggi, sono
connettività e portabilità.
Se però è vero che la tecnologia è ovunque e ha trasformato la
nostra vita, così non è per la scuola che è rimasta pressoché
impermeabile al fenomeno. Eppure proprio le conseguenze della
pervasività delle tecnologie nella vita dei più giovani chiedono
all’istituzione scolastica, e ai suoi insegnanti, di interrogarsi su
come interpretare la propria missione educativa. La scuola si trova
di fronte a importanti questioni che mettono in discussione alcuni
capisaldi fondamentali, non ultime le teorie psicopedagogiche fino
ad ora in voga nella scuola e la funzione democratica del sistema
scolastico.
Quanto al primo aspetto basti far cenno a come la diffusione delle
tecnologie mal si coniughi con una impostazione frontale della
didattica, ridefinendo i contorni del rapporto docente-studente e,
più in fondo, l’idea di “scuola” intesa come luogo fisico
privilegiato per la trasmissione del sapere e l’insegnamento e la
costruzione delle conoscenze. L’insegnante non è più l’unico
depositario del sapere. I giovani sono i veri esperti delle
tecnologie: ne sanno molto di più dei loro genitori e dei loro
insegnanti. A salire in cattedra in questo caso potrebbero essere
proprio loro, i nativi digitali.
Inoltre il secondo digital divide - che non riguarda più il solo
accesso ma le differenze d’uso - richiama la scuola a interpretare
tra le altre anche una funzione di tipo democratico. Alla scuola,
quindi, luogo deputato alla formazione di “cittadini” del mondo,
viene chiesto di essere “ascensore” sociale capace di offrire eque
opportunità per tutti. La domanda che ci poniamo è se studenti
provenienti da ceti sociali più poveri possono colmare divario
culturale e opportunità di successo attraverso una scuola
maggiormente digitalizzata, affinché la diffusione delle tecnologie
non li releghi ancor più – secondo la logica di una profezia
autoavverantesi - in una vita infelice e poco soddisfacente.
È a queste domande che cerca di rispondere il volume Un giorno di
scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile? della Fondazione per la
Scuola, che contiene contributi originali di esperti autorevoli sul
tema. Il volume fa il punto sulle evidenze scientifiche più recenti
e mette in luce alcune consapevolezze - imprescindibili - da cui
partire, perché la scuola sia più rispondente agli obiettivi e alle
esigenze di apprendimento degli studenti, personalizzante,
maggiormente focalizzata a sostenere le potenzialità di tutti i
ragazzi.
Ma quali sono, allora, gli effetti delle tecnologie sul
micro-sistema della relazione educativa? Chi sono, davvero, gli
studenti che varcano oggi la soglia delle nostre scuole? Come hanno
risposto scuole e insegnanti a queste ondate di cambiamento?
La ricerca scientifica ci consegna un quadro molto complesso.
L’universo dei nativi digitali è sfaccettato e multiforme. Usando
termini come net generation, digital natives, generazione post-1982,
si rischia di dare corpo ad un modello stereotipato di studente, di
fatto senza età, senza sesso, senza preferenze e valori. Gli esiti
delle indagini sui New Millennium Learners (NML) del Ceri-Ocse
mettono in luce questa disomogeneità. Innanzitutto esistono
significative differenze di genere: se i ragazzi usano più
frequentemente il computer, le ragazze lo utilizzano per elaborare
testi, inviare sms ed e-mail, animare blog. Anche provenire da un
contesto socioeconomico più favorevole determina sia un accesso
maggiore alle tecnologie, sia un utilizzo amplificato e più
proficuo.
Le tecnologie, poi, possono incidere sui processi cognitivi sottesi
agli apprendimenti. È il caso dei contenuti a forte impatto emotivo
che interferiscono sulla capacità di ricordare, mentre non esistono
prove certe sugli effetti delle TIC sui risultati d’apprendimento
che, invece, sembrano maggiormente connessi a un loro uso
strategico. Infine va detto, come fa osservare Prensky (2010), uno
dei maggiori esperti del settore, che gli studenti hanno vissuti e
rappresentazioni mentali rispetto alle tecnologie che condizionano
il loro approccio con la scuola e con l’apprendimento: in
particolare, non tollerano più lezioni frontali e vogliono creare
materiali con gli strumenti del loro tempo.
Per quanto riguarda le reazioni dei sistemi educativi e degli
insegnanti, non si può negare il fatto che esista una resistenza
generalizzata all’impiego delle tecnologie a scuola (Bottani, 2010),
motivata fondamentalmente dalla difficoltà di assumere un diverso
paradigma pedagogico-didattico che non consideri il docente come
unico depositario delle conoscenze da trasmettere. Già in passato,
altri media hanno sollecitato un ampio dibattito - e le conseguenti
resistenze - rispetto al loro utilizzo nelle aule scolastiche e
sulla possibile influenza negativa sui processi di apprendimento.
Nel caso delle TIC c’è, però, una distinzione fondamentale da fare.
Nessun altro media, prima d’ora, ha modificato la velocità e il modo
con cui si elaborano le informazioni come hanno invece fatto le
tecnologie digitali. Contemporaneamente, è la generazione post 1982
- come descritta poco sopra - a frequentare le nostre scuole oggi.
Due sono almeno le conseguenze. Da un lato, la profonda distanza tra
quello che gli studenti vivono a scuola e le loro esperienze di
tutti i giorni non può che contribuire ad alimentare un crescente
senso di estraneità nei giovani alle proposte della scuola, con
tutte le implicazioni che questo profondo gap generazionale e
culturale può comportare. Senza però una relazione educativa
significativa, in cui lo studente si sente riconosciuto pienamente,
anche gli apprendimenti risultano più faticosi.
Secondariamente, vista la poliedricità dell’universo dei nativi
digitali ciascuno studente svilupperà conoscenze, abilità e
competenze diverse connesse all’impiego delle TIC. È alla scuola,
allora, che spetta il compito di comprendere queste differenze per
meglio personalizzare i propri interventi anche in una prospettiva
“democratica”, finalizzata a contenere quella “seconda forma di
digital divide” strettamente connessa con il capitale culturale,
economico e sociale degli studenti.
Gli insegnanti, dal canto loro, sono un po’ in difficoltà, anche se
non tutti. Infatti, nonostante la diffusa impermeabilizzazione della
scuola alle tecnologie, non si può fare a meno di osservare che ci
sono docenti che hanno intrapreso la strada dell’innovazione (e non
solo quella segnata dall’utilizzo delle tecnologie nella didattica,
ovviamente). Ed è su questi che si deve puntare e scommettere,
perché le loro non rimangano esperienze isolate. In questa
prospettiva, punti di osservazione a nostro avviso interessanti sono
il livello di maturità digitale delle pratiche didattiche e
l’investimento in formazione per gli insegnanti.
Parlare di un uso “maturo”, quindi strategico ed efficace, delle
tecnologie significa abbandonare la strada del determinismo
digitale: per fare innovazione non sono cioè sufficienti né una
generale predisposizione degli insegnanti, né la sola “presenza”
della tecnologia. Infatti, servono competenze specifiche da parte
dei docenti e la disponibilità di contenuti digitali.
L’introduzione delle TIC in classe significa certamente una diversa
organizzazione dello spazio e del tempo scolastico, ma soprattutto
implica un cambiamento di strategia. In special modo implica un
radicale mutamento di mentalità dell’amministrazione scolastica a
tutti i livelli, dal governo politico (che non può pretendere di
continuare a guardare alle scuole come a sue diramazioni
periferiche) al governo tecnico (per cui i dirigenti scolastici
devono, ad esempio, iniziare a ridisegnare la scuola come spazio
fisico nella sua interlocuzione con il mondo). Ai docenti, tuttavia,
spetta il compito più difficile e cioè reinventare dalle basi la
loro professione avendo in mente però che le tecnologie sono uno
strumento in mano agli attori del processo educativo. Esse possono
certamente contribuire a “fare nuovo” l’ambiente classe e la
relazione educativa, ma perché l’ingresso dei new media nelle classi
non si limiti ad essere un’operazione di “maquillage”, sono ancora
una volta i docenti a doversi mettere in gioco con le loro
competenze e professionalità. Solo il docente che - pur
differenziandosi - conosce i suoi studenti e i loro linguaggi
instaura una relazione significativa e riesce, quindi, a ottenere
importanti risultati di apprendimento.
Non c’è tecnologia, per quanto avanzata, che possa sostituirsi al
docente e alle sue capacità di relazione. Analogamente, è
l’intelligenza umana che impiega le tecnologie in modo funzionale
alla costruzione di un ambiente classe più motivante, accogliente,
coinvolgente sia dal punto di vista fisico, che relazionale.