La scuola: “un impero in un impero”? di Marco Magni, marzo 2011 Non ho letto il libro di Paola Mastrocola. Ma, conoscendo il tenore delle argomentazioni dell’autrice, temo che il numero delle copie vendute sia direttamente proporzionale alla carenza di spessore scientifico e di aderenza alla realtà delle cose. In sostanza, quel che il discorso dominante sulla scuola ci propone oggi è che la scuola è in uno stato di profonda crisi dovuto a ragioni di natura morale: accidia, pigrizia, inettitudine, degli allievi per la Mastrocola, di noi insegnanti per i vari Brunetta di turno. Nulla di nuovo sotto il sole. Ai primi del ‘900, Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini e un insospettabile giovanissimo Piero Gobetti, dicevano in sostanza le stesse cose: la scuola è piena di scansafatiche, di “spostati” come venivano chiamati allora, che vanno ad ingrossare le fila dei medici, dei letterati, degli ingegneri disoccupati. L’operazione da compiere, secondo le élites dell’Italia liberale, era una sola. Scremare, come fu poi effettivamente fatto con la riforma Gentile del 1923, che abolì gli istituti tecnici, che davano accesso all’istruzione superiore, per sostituirli con la scuola tecnica “a vicolo cieco”, che fornisse un’infarinatura di sapere ai ceti popolari ma moderasse allo stesso tempo le loro ambizioni di mobilità sociale, facendoli restare al loro posto: nell’officina, nella bottega, nei campi. Lo racconta il classico di Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e mercato del lavoro in Italia (1973). Anche gli animi più nobili, quando universalizzano, scambiandolo per un dono di natura, il loro privilegio di intellettuali, cadono nell’errore di leggere i problemi dell’educazione secondo le categorie della morale. E’ quel che Pierre Bourdieu chiama l’illusione scolastica: il mondo letto dal punto di vista della professoressa di lettere, con gli esseri umani che si dividono in “dotati” e “somari”. Il giudizio scolastico, eretto a categoria dello spirito, diviene il criterio delle diagnosi e delle soluzioni di una condizione di crisi. La crisi della scuola, che ritengo personalmente un fatto impossibile da negare. Ma il dato di fatto della crisi è una cosa, la sua diagnosi intelligente tutt’altro. I tanti che parlano della scarsa valorizzazione dei talenti, del lassismo didattico, del ’68, quali cause della crisi dell’educazione e, in genere, anche tutti coloro i quali, del tutto alieni da posizioni gelminiane, vedono alla radice della crisi della scuola delle cause “didattiche”, compiono una precisa scelta di metodo: isolano la scuola dalla società in cui la scuola stessa è compresa. Parlano della scuola come di un mondo a parte, o, come diceva Spinoza a proposito della credenza che l’uomo agisse secondo leggi diverse dalle leggi che governano la natura, come “un impero in un impero”. Perciò diviene possibile ignorare che la scuola, in tutto il mondo, sia stata investita da un mutamento epocale: prima tassi moderati ma costanti di crescita della popolazione scolastica a livello secondario e universitario, proprio attorno al ’68, poi un vero e proprio boom, negli anni ’80-’90, che ha portato ad una frequenza dell’80-90% della popolazione in età giovanile. Coloro che vedono nel ’68 l’innesco di una crisi morale dell’istruzione non vogliono vedere che il ’68 stesso è stato il prodotto di una trasformazione di lunga durata che risale al boom mondiale del secondo dopoguerra: riduzione drastica della forza-lavoro in agricoltura, crescita accelerata dell’industria e dei servizi, accesso ai beni di consumo durevole della popolazione operaia e di estrazione popolare. Di fronte alla massificazione, alla generalizzazione dell’istruzione secondaria alla maggioranza della popolazione, c’è stato un calo della qualità della scuola? Personalmente credo che non si possa che rispondere in senso affermativo. La massificazione conduce ad un calo della qualità, poiché la cultura non è di casa allo stesso modo in tutte le famiglie. Io, figlio di un prof di filosofia, ero il più bravo della classe nelle materie letterarie, e mio padre non mi ha mai dato lezioni private. In questi ultimi decenni il problema è stato molto discusso nell’ambito della sociologia dell’educazione, e molti hanno cercato di attribuire la differenza statistica dei risultati scolastici tra le diverse classi sociali a fattori diversi dalla cultura quali il reddito, le strategie familiari legate alle diverse mentalità, a fattori interni di organizzazione degli istituti, o agli handicap educativi nei primi anni di vita. Personalmente ritengo che il fattore dell’eredità culturale, messo al centro del discorso da Bourdieu e Passeron ne Les héritiers del 1964, rimanga sempre il fattore esplicativo migliore della diseguaglianza dei risultati scolastici parallela alla diseguaglianza delle origini sociali. Ovviamente, quando si parla di diseguaglianza sociale dei risultati scolastici non si emette una condanna per i ragazzi dei ceti popolari a rimanere ignoranti a vita, visto che lo stesso Bourdieu, che ha proposto la tesi dell’eredità culturale o della “riproduzione sociale”, era figlio di contadini. Si parla invece di un differenziale di probabilità di accedere a titoli di studio e a posti prestigiosi. Che, dicono le statistiche, permane nel tempo, solamente traslato verso l’alto. Bene, come voleva e fece Giovanni Gentile, e come vogliono i tanti assertori del “diritto a non studiare” di oggi, escludiamo dalla scuola le maggioranze dei non acculturati, e vedrete che ritroveremo il gusto dello studio e dell’insegnamento. La scuola dei meritevoli e dei motivati rimane, oggi come ai tempi di Don Milani, la scuola dei pochi. Ma la massificazione della frequenza scolastica ha portato un altro fattore di crisi strutturale, che non può che rifrangersi sulla qualità dell’istruzione: l’inflazione del valore dei titoli di studio. La scuola produce “pezzi di carta”, assolutamente necessari per tutti, poiché il diploma di secondaria superiore è necessario anche per fare il bidello. Ma, chiaramente, la crescita del numero dei diplomati ha condotto all’inflazione del valore del diploma. E, tutto ciò, non dovrebbe avere riflesso alcuno all’interno delle aule scolastiche? Il famoso senso di sacralità, tanto venerato, che un tempo circondava la scuola, e rafforzava l’autorità dei professori, era dovuto ad un più alto senso di moralità degli uomini del buon tempo andato, oppure era il riflesso della certezza che il diploma avrebbe assicurato opportunità di carriera e di mobilità sociale, proprio perché si trattava di un bene scarso? L'inflazione del valore dei titoli di studio è anche – indirettamente - alla base anche del declino del ruolo sociale e della posizione economica degli insegnanti. Gli attacchi al welfare state e alla categoria insegnante, accusata di essere responsabile di un calo della qualità dell'insegnamento, trovano terreno fertile nella crisi della scuola, determinata invece dalla sua massificazione e dall’inflazionamento del suo prodotto. L'investimento pubblico rende meno, perché il prodotto della scuola, il titolo di studio, è deprezzato. Allora, c’è buon gioco ad accusare di volta in volta gli insegnanti e gli allievi di essere i responsabili soggettivi della crisi (ma ci accorgiamo che è un gatto che si morde la coda, e che l’accusa in fondo è sempre la stessa?), per legittimare la riduzione degli investimenti nella scuola pubblica e nei salari (in termini di reddito reale al netto dell'inflazione) degli insegnanti. Noi insegnanti siamo una categoria oggettivamente in declino, in ragione di una crisi di natura strutturale, e in secondo luogo di politiche neoliberiste che hanno tratto vantaggio da tale crisi. Personalmente, credo che la Mastrocola e gli altri ragionino un po' come quei piccoli nobili decaduti che, prima della rivoluzione francese, rimanevano attaccati ai loro piccoli privilegi e ai loro segni di distinzione. Noi siamo sempre consapevoli degli effetti – è sempre Spinoza che parla – ma non sempre lo siamo delle cause. Non possiamo fare altrimenti, per reagire al declino, che difendere il diritto di tutti e tutte al “pezzo di carta”, ovvero il diritto all’istruzione pubblica. E direi non perché la massa generi più posti di lavoro per noi, ma perché la massificazione della scuola, con tutte le contraddizioni di cui sopra, è stata il frutto di un progresso civile. La scuola ha perduto di qualità perché, per fortuna, grazie a lotte decennali, è diventata di massa. Ovviamente, la mia conclusione ha una venatura pessimistica, e alla domanda se sia possibile far crescere la qualità della scuola pur in una condizione di accesso universale all’istruzione, risponderei che credo sia possibile, ma senza illusioni di rapide e improvvise rivoluzioni. Le ricette miracolose degli ultimi trent’anni, ultima delle quali è la valutazione del merito degli insegnanti, hanno sempre risvolti regressivi e – come ha dimostrato Diane Ravitch – producono disastri. Comunque, leggendo Bourdieu sono arrivato alla conclusione che, nella considerazione dei fatti sociali, tra cui la scuola occupa un ruolo rilevantissimo, lo stoicismo non è necessariamente una filosofia conservatrice: essere consapevoli del fatto che molto di ciò che ci accade non è in nostro potere non è necessariamente segno di fatalismo. Può esserlo, invece di saggezza. |