La guerra sbagliata sulla scuola Le esternazioni del premier Giovanni Sabatucci Il Messaggero, 1.3.2011 NEI centocinquant’anni di storia dell’Italia unita la scuola pubblica ha svolto un ruolo insostituibile nel processo di costruzione di una comunità nazionale. Ha lentamente insegnato a leggere e scrivere a una popolazione per tre quarti analfabeta al momento dell’Unità. Ha faticosamente cercato di fornire a tutti i ragazzi in età scolare, quali che fossero la loro provenienza geografica e la loro condizione sociale, una base comune di letture e di immagini, di conoscenze e di memorie. Lo ha fatto fra mille difficoltà e in presenza di una cronica scarsità di risorse, attraverso un apparato burocratico fortemente centralizzato (che riproduceva la struttura accentrata dello Stato), ma anche e soprattutto per merito di un corpo insegnante tutt’altro che omogeneo, portatore di esperienze e di inclinazioni politiche diverse, ma complessivamente capace di trasmettere quel patrimonio comune e di supplire con una forte motivazione ideale alla povertà degli incentivi economici. Nelle scuole dell’Italia liberale e laica molte cattedre erano occupate da insegnanti cattolici, ma anche da anticlericali, repubblicani e socialisti. Lo stesso regime fascista dovette convivere con un corpo docente solo parzialmente, e spesso superficialmente, allineato alle parole d’ordine del regime. La scuola dell’Italia repubblicana (o almeno quella che io ho frequentato negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta) dovette viceversa utilizzare insegnanti formatisi negli anni della dittatura e non di rado ancora sensibili alle retoriche del ventennio. Con tutto ciò in parte forse in virtù di tutto ciò la scuola italiana non è mai venuta meno al suo ruolo fondamentale di agente di socializzazione primaria e di nazionalizzazione culturale. Alla luce di quanto detto, non possono non stupire le ultime esternazioni sul tema del presidente Consiglio: dove la scuola pubblica è dipinta, da chi incarna il vertice del potere politico nazionale, come una pericolosa fucina di idee sovversive, come un ambiente malsano a cui sarebbe consigliabile sottrarre i ragazzi; e dove si invoca per la bisogna l’aiuto di quello stesso Stato di cui la pubblica istruzione è, almeno in teoria, espressione e strumento. Sia chiaro: qui non si tratta di negare la liceità, anzi la positività, di una convivenza concorrenziale fra pubblico e privato anche nel campo dell’istruzione, convivenza prevista dalla Costituzione (seppur con la condizione che non comporti oneri per il bilancio pubblico). E non è nemmeno il caso di rimpiangere la vecchia scuola tradizionale, tendenzialmente autoritaria ed elitaria, a volte duramente classista, la scuola di Gabrio Casati e di Giovanni Gentile. Quella scuola è finita da tempo, vittima della massificazione dell’istruzione superiore, del decentramento amministrativo e del permissivismo pedagogico. Ma soprattutto è venuto meno il quasi-monopolio a lungo mantenuto dall’istituzione scolastica nel campo della formazione e dell’informazione di base. Oggi ragazzi e bambini ricevono una quantità esorbitante di informazioni dai canali più diversi. Ma questo non attenua, anzi rende più acuto, il bisogno di un quadro generale comune, in cui inserire una massa di dati altrimenti caotica e ingestibile. Questo quadro può fornirlo solo un’istituzione nazionale, per quanto aperta e articolata: appunto la scuola pubblica. Che non va abbandonata a se stessa e ai suoi problemi quotidiani di sopravvivenza, ma va al contrario rilanciata e riqualificata attraverso una cospicua iniezione di meritocrazia che la renda capace, più di quanto oggi non sia, di preparare i giovani all’ingresso nel mondo del lavoro, di favorire i meccanismi di promozione sociale a prescindere dalle condizioni di partenza. Senza per questo smarrire quegli obiettivi di formazione culturale disinteressata e “gratuita” che la vecchia scuola, con tutti i suoi limiti, sapeva conservare e trasmettere. |