La guerra alla scuola pubblica

di Mariavittoria Orsolato Altrenotizie, 9.3.2011

“Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori”. Così parlò Berlusconi lo scorso 27 febbraio, smentendo come al solito il giorno seguente. Tanto è bastato per riaccendere gli animi degli operatori scolastici e degli studenti che, dopo l’approvazione definitiva della riforma Gelmini, torneranno in piazza il prossimo 12 marzo aggiungendo la loro istanza a quella della difesa della costituzione.

Mentre infatti la scuola pubblica agonizza sotto il tagli imposti dal nuovo corso, il Governo pensa ad istituzionalizzare il buono scuola per gli istituti privati. Dal 2000 - anno in cui venne creato ad hoc dal presidente della Lombardia Formigoni, per compiacere il suo elettorato cattolico - l’istituto del buono scuola per le famiglie degli studenti delle scuole private (cattoliche in maggioranza) ha conquistato anche Veneto, Emilia-Romagna, Friuli, Liguria, Toscana, Sicilia, Piemonte. Questo incentivo, pagato ovviamente anche da chi i figli li manda alla scuola pubblica, non è in realtà riuscito ad incidere sulle iscrizioni alle paritarie ma rimane un ottimo strumento politico per accattivarsi l’indulgenza del Vaticano.

Un’indulgenza più che mai necessaria dopo gli scandali del “bunga-bunga” e che, solo nel 2005, è costata al bilancio 500 milioni di euro. Se il buono scuola venisse esteso a tutto il territorio nazionale, servirebbero almeno tre riforme Gelmini per coprire il buco. Ma, come dicevamo, si tratta fortunatamente solo di becera propaganda.

Nel frattempo a Palazzo della Minerva si continua a limare sugli esuberi. La prossima ondata di tagli, prevista per l’anno scolastico 2011/2012, prevede 19.700 cattedre in meno e un esercito di professori di medie e superiori, circa 27.400, pensionati ma non sostituiti. Le regioni più colpite dalle nuove disposizioni saranno quelle meridionali e le isole, dove per il prossimo anno il Miur stima un calo nelle iscrizioni, ma secondo i calcoli del Ministero questo repulisti servirà a ricollocare i 30.000 precari in attesa di una cattedra.

I toni di Maria Stella Gelmini sono ottimisti, il ministro parla di “saldo in positivo” ma per quanto riguarda il personale tecnico e amministrativo c’è un bel segno meno per 14.000 dipendenti. Stessa sorte tocca ai supplenti, i docenti meno tutelati, che in soli due anni - dal 2008 al 2010 - hanno visto svanire ben 25.000 contratti. D’altronde il budget stanziato dal Tesoro nella finanziaria si è assottigliato ulteriormente, passando da 186 milioni di euro del 2008 a 127 milioni per il 2010.

A questo desolante panorama si aggiunga che nel biennio attuativo della riforma le classi di elementari, medie e superiori sono calate di 10.617 unità, con il risultato che in un’aula vengono stipati anche 30 o 35 ragazzi. Il tutto in barba alle norme di sicurezza e alla qualità della didattica, che per essere all’altezza del suo compito dovrebbe espletarsi in contesti molto meno dispersivi.

La crisi economica globale che, nelle motivazioni ufficiali, è alla base di questo colossale ridimensionamento dell’educazione pubblica, miete le sue vittime anche dopo che queste hanno chiuso i libri. Stando alle ultime rilevazioni di "Alma Laurea", sia i laureati “brevi” che quelli specialistici faticano sempre di più a trovare un contratto di lavoro: per i primi il tasso di disoccupazione è al 16,2%, mentre per i secondi il dato è ancor più paradossale, 17,7%.

Se infatti è vero che i laureati posseggono strumenti culturali e professionali più affinati per reagire ai mutamenti di mercato e società,  la realtà dei fatti vuole stipendi svalutati nel loro potere d’acquisto e contratti precari come routine. Nonostante l’istruzione superiore sia ormai alla portata di tutte le classi sociali, si perpetrano le disparità tra i ceti di provenienza, con il risultato che solo la rete di soci e clienti, vecchia di 2000 anni, riesce a dare reali speranze ai giovani neolaureati. Va da sé che a questa soluzione riescano ad accedere solo i cosiddetti “figli di”.

La pubblica istruzione in un regime democratico significa emancipazione, mobilità sociale e sicurezza. La pubblica istruzione italiana targata Gelmini ha deliberatamente scelto di abiurare questi tre obiettivi in nome di un pareggio di bilancio che, dopo l’uscita dei dati sul debito pubblico (+200 miliardi solo nel 2010), risulta essere semmai un miraggio. Anche per questo il mondo della scuola ha deciso di tornare nuovamente in piazza dopo i tre mesi di mobilitazione che hanno preceduto l’approvazione della nuova legge sull’università. Gli studenti e i docenti della penisola tengono a far sapere al premier, alla maggioranza e, perché no, anche al mondo cattolico, che la scuola pubblica non “inculca” ma educa. E lo fa nonostante il Ministero si ostini a volerla rendere un colabrodo.