SCUOLA
Abravanel: così la cultura del merito intervista di Federico Ferraù a Roger Abravanel, il Sussidiario 7.3.2011
Il cardine del suo pensiero è “meritocrazia”. Roger Abravanel spiega
al sussidiario il suo punto di vista sulla scuola italiana e sulla
cura che ci vorrebbe per risanarla. Il mondo è cambiato, e la scuola
non può ignorarlo. I test devono ora misurare il grado di competenze
raggiunto dai nostri studenti, e soprattutto i risultati devono
essere pubblici. «La trasparenza è la base per creare un circolo
virtuoso di informazioni e con esso introdurre un po’ di
competizione, elevando il livello». Le scuole?«Cominciamo a
controllare la loro performance attraverso un meccanismo di
ispettorato». I sindacati? «Lavorano contro l’interesse delle
famiglie».
In estrema sintesi direi: pessimo, ma con lievi segnali di
miglioramento. Dico pessimo perché quasi l’80 per cento degli
studenti italiani sono “analfabeti”. Non mi fraintenda: analfabeti
non nel senso che non sanno leggere e scrivere, ma che non capiscono
quello che leggono, come mostrano bene le indagini Ocse Pisa che
misurano le competenze. Non parliamo dell’ultimo rapporto
Invalsi-Crusca del luglio 2010.
Le scuole devono essere rese responsabili e la qualità del loro
insegnamento deve essere resa trasparente al pubblico. Io ho
proposto che i test che si cominciano faticosamente ad avviare
vengano resi trasparenti in modo che gli insegnanti e soprattutto le
famiglie possano capire con chiarezza la qualità della suola
frequentata dai figli. La trasparenza è la base per creare un
circolo virtuoso di informazioni e con esso introdurre un po’ di
competizione, elevando il livello. Per quanto riguarda le scuole,
occorre cominciare a controllare la loro performance attraverso un
meccanismo di ispettorato, che da noi ancora non esiste. Nella
situazione in cui ci troviamo i suoi costi sarebbero più che
ripagati dalla qualità dell’investimento.
Non è tanto un problema di classifica, quanto di poter riconoscere
la qualità delle scuole. Devono conoscerla i genitori; deve
conoscerla il ministero, perché deve poter intervenire per
migliorare le scuole che sono meno buone; devono conoscerla le
scuole stesse, perché solo così possono elaborare programmi di
auto-miglioramento rafforzando le aree che risultano più deboli. E
la dobbiamo conoscere noi contribuenti, perché mettiamo nella scuola
una quantità enorme di soldi e abbiamo il diritto di conoscerne il
ritorno.
Uno dei miei suggerimenti al ministro è stato quello di ridefinire
la missione dell’Invalsi. La Gelmini ha compreso l’importanza di un
uso sistematico dei test, e gran parte dei miglioramenti avuti di
recente nei dati Ocse-Pisa sono dovuti alla sensibilizzazione e alla
formazione all’utilizzo di questi test. La mia opinione è che
l’Invalsi debba fare solo test, non essere un istituto accademico
che fa degli studi di massima sulla qualità del sistema scolastico.
Dovrebbe ispirarsi all’Ets americano, l’istituto creato nel 1933 con
questo scopo e che oggi ha duemila persone esperte di test e di
indagini.
No, il problema è diverso e più profondo. Qual è oggi l’obiettivo
della didattica? Si pensa ancora che esso consista nell’insegnamento
statico e ripetuto di una cultura immobile e più o meno definita,
situata concettualmente agli antipodi della misurazione. Ma il vero
problema con il quale oggi tutto il mondo si sta confrontando è che
i cambiamenti intervenuti a livello globale richiedono un sistema
educativo d’istruzione che indipendentemente dalle conoscenze e
dalle discipline che vengono insegnate, sviluppi negli studenti
quelle che vengono chiamate le competenze della vita. Esse sono
precisamente quelle misurate dai test: la capacità di ragionare con
la propria testa, di risolvere problemi, di lavorare in gruppo, di
ascoltare. Molti ancora non accettano l'idea della misurazione,
perché pensano che fare test voglia dire affrontare un quiz su
quanti gol ha fatto Totti in campionato.
Sì. Come mai questi test dimostrano un percentuale così elevata di
quell’“analfabetismo” di cui le dicevo? La gente non ha capito che
il mondo è cambiato, che siamo passati ad un’economia post
industriale basata sui servizi, in cui conta non tanto imparare a
memoria le idee di un altro, ma esser capaci di avere proprie idee.
Li facciamo valutare dai presidi. Il sistema di valutazione può
valutare solo le scuole, non i singoli docenti. Gli ispettori, il
ministero, i genitori devono poter valutare una scuola nel suo
complesso, al massimo possono farsi un’opinione di un singolo
insegnante, che però dev’essere valutato dal preside. Il dirigente
scolastico dev'essere anche un manager.
So che la parola non piace a molti dei nostri insegnanti e
sindacalisti, che lanciano l’allarme contro la svalutazione
“industriale” della scuola, ma il preside nei fatti anche un gestore
di risorse umane: è lui che conosce meglio di chiunque altro i suoi
insegnanti, ed è lui a doverli formare, motivare, sostituire quando
non vanno bene. Egli deve quindi essere un ottimo insegnante, ma
anche un buon manager.
Assolutamente sì, ed è un motivo in più per cambiare il sistema.
Occorre che un valutatore esterno vada dal preside e dica: Questa è
la fotografia della tua scuola: i test peggiorano - badi bene: non
basta dire semplicemente che sono pessimi, perché può esserci una
scuola disagiata e questo dev’essere tenuto in conto -, oppure: La
tua scuola andava molto male, ora sta migliorando. La tua, invece, è
andata molto peggio in matematica rispetto all’italiano, allora
forse devi rafforzarla in questa disciplina: facciamo insieme un
piano di tre anni, se fra tre anni siamo allo stesso punto, sappi
che ti sostituiamo oppure riduciamo i finanziamenti. E comunque in
questo processo i risultati sono resi trasparenti ai genitori, che
vedendo come stanno le cose possono decidere di mandare i figli in
un’altra scuola.
Mi sembra un tema lontano dai nostri problemi attuali. La nostra
preoccupazione dev’essere quella di impegnarci nel migliorare la
qualità. Non è un compito facile, perché abbiamo perso la misura
dell’eccellenza.
Se lei guarda i dati internazionali si accorge che il problema non è
soltanto il livello deludente della media italiana, ma che la
percentuale dell’eccellenza da noi è bassissima, molto più bassa
della Francia o della Finlandia. Il che vuol dire che la nostra
scuola non premia l’eccellenza, perché è tarata sul più debole.
Questo è un tema che andrebbe messo subito al centro del dibattito.
No, perché l’obiettivo non è la chiusura delle scuole che hanno
cattivi risultati, ma il loro miglioramento. Quello che conta non è
il risultato puntuale dei test di misurazione, ma la dinamica: una
conduzione scolastica che migliora nettamente un risultato pessimo è
migliore di quella che difende nel tempo lo stesso valore superiore
in termini assoluti. Più trasparenza farebbe aumentare la domanda di
qualità e con essa la pressione sul sistema.
Molto semplicemente, il fatto che un minimo di concorrenza tra le
scuole può far solo bene. Le scuole della Lombardia che hanno
pubblicato i risultati in maniera autonoma e spontanea, lo hanno
fatto per dire: Venite da noi che abbiamo scuole migliori. È
positivo che alcune scuole lo abbiano fatto, ma ora occorre che lo
facciano tutti e quindi il mio appello al ministro è stato di
trovare un modo - un decreto, una regolamentazione... - perché tutte
le scuole pubblichino questi risultati.
Moltissimo. I sindacati fanno gli interessi dei propri iscritti ed è
normale. Dispiace che siano proprio gli insegnanti a soffrire di
questa situazione, perché in Italia c’è qualche centinaio di
migliaia di bravissimi docenti che in un sistema poco
responsabilizzato vengono penalizzati. Ma più ancora quel che trovo
terribile è che l'interesse dei sindacati non tocchi minimamente
quello dei genitori, e soprattutto che i genitori non lo capiscano;
e che si crei un’alleanza insensata tra sindacati, insegnanti e
genitori, dove questi ultimi sono quelli che hanno più da perdere. La meritocrazia. E un paziente e saggio lavoro di buona informazione. |