SCUOLA Le prove Invalsi? Non è un test di 4 ore a rovinare il lavoro di ogni giorno Elena Ugolini il Sussidiario 11.5.2011 Nel corso di questa settimana circa 2.250.000 studenti sono impegnati nelle prove di italiano e matematica Invalsi. Sono gli alunni che frequentano la II e V primaria, la I secondaria di primo grado e la II superiore. Penso sia giusto usare il termine “prove” per indicare ciò che è contenuto nei fascicoli su cui sono chiamati a lavorare i nostri figli: si tratta di esercizi, problemi, domande sul testo costruite a partire da quadri di riferimento concettuali ben precisi. Non sostituiscono quelle che i docenti costruiscono ogni giorno per verificare ciò che i propri studenti hanno imparato, la loro capacità di argomentare, giudicare, esprimersi, trovare strade nuove per risolvere problemi. Le prove Invalsi non potranno mai prendere il posto di questo lavoro quotidiano che gli insegnanti svolgono e che gli studenti sono chiamati a fare. Hanno una funzione limitata, ben precisa, non esaustiva. Perché allora farle? Sono prove che hanno lo scopo di offrire alcuni elementi confrontabili su tutto il territorio nazionale per più di 550.000 studenti per ciascuno dei livelli coinvolti. Sarebbe possibile avere elementi comparabili sulla padronanza della nostra lingua facendo svolgere la “stessa” interrogazione orale a “tutti” i ragazzi, “contemporaneamente”? Possiamo ammettere, almeno come ipotesi di lavoro, che avere questi dati relativamente a tutto il territorio nazionale possa avere una qualche utilità? Un ragazzo di seconda superiore che con il proprio docente di italiano ha avuto la fortuna di leggere e studiare Shakespeare - lo dicevamo ieri in una trasmissione radiofonica con Paola Mastrocola - non avrà sicuramente avuto alcun problema a svolgere la prova Invalsi. Non sono necessari addestramenti particolari. Occorre “semplicemente” abituare i ragazzi al rigore, all’attenzione ad ogni singola parola, a non trarre conclusioni senza chiedersi il perché. È quello che chiede di fare ogni giorno chi insegna, chi aiuta a capire, a conoscere in profondità, a non rimanere in superficie. Niente a che vedere con quei libretti pieni di esercizi banali e ripetitivi usciti in concomitanza delle prove Invalsi, redatti, magari, dagli stessi autori di sussidiari e libri di testo che per anni hanno fatto scuola. È opportuno dare il giusto valore a queste prove, che possono avere una precisa utilità, ma che non possono nemmeno diventare la causa di tutti i problemi della scuola italiana. Per farle svolgere gli insegnanti hanno dovuto rinunciare a circa 4 ore di scuola sulle 1000 previste nell’arco di un intero anno scolastico. Quattro ore a fronte di 18 mesi di lavoro svolto da docenti ed esperti per mettere a punto i fascicoli, e del tempo dedicato dai ricercatori Invalsi per dare al Paese i risultati di un campione rappresentativo controllato da osservatori esterni. I dati restituiti invece alle singole scuole che non hanno avuto la supervisione esterna, nel caso in cui non sia stata fatta bene la somministrazione, saranno carta straccia, a danno esclusivo di chi male le ha svolte. La buona notizia di ieri è che su 2.300 scuole del campione per la seconda superiore, solo in una ci sono state difficoltà. Lo scorso anno tutte le scuole primarie e secondarie di primo grado avevano partecipato di buon grado alla rilevazione, senza caricarla di significati che non ha e che non potrà mai avere. È fin troppo evidente che misurare i risultati dei nostri studenti solo con test esterni standardizzati sarebbe un crimine, perché significherebbe depauperare una tradizione culturale, educativa e didattica che non ha niente a che fare con l’addestramento: non bisogna confondere il significato di questa operazione con i suoi sottoprodotti.
Ma tra questo estremo e l’assurdo di rinunciare a qualunque
comparazione esterna degli apprendimenti degli studenti c’è la
strada del sano realismo. Prima delle rilevazioni Invalsi un quadro
contraddittorio della scuola italiana veniva offerto da una parte
dagli esiti delle grandi indagini internazionali, che denunciavano
l’esistenza di un profondo divario tra nord e sud e di una iniqua
varianza di risultati tra scuole; e dall’altra dai risultati di un
esame di Stato alla fine del secondo ciclo in cui il Paese compariva
come un grande insieme indistinto, senza alcuna significativa
differenza tra scuole. In realtà, chi sa che cosa c’è “dietro” un
80, un 90, un 100 come esito finale? |