SCUOLA
Pochi soldi, finta autonomia: Claudio Cereda il Sussidiario 10.5.2011 Sono trascorsi tre mesi da quando sono intervenuto sulle problematiche della valutazione parlando dell’importanza della passione nel lavoro di insegnante. Purtroppo le critiche rischiano di essere percepite da chi non le merita; parlo di tutti quegli insegnanti che stanno sul pezzo e ci stanno con passione. Qualcuno dei miei docenti si è lamentato e ho promesso che ci sarei tornato sopra trattando delle condizioni necessarie per garantire alla passione di vivere, svilupparsi e durare nel tempo. Siamo al primo anno di applicazione di una riforma che, esagerando, il ministro ha definito epocale. Più correttamente negli ambienti del ministero si parla di riordino e si tende a vedere la questione in termini processuali. Il nodo principale è quello della didattica per competenze che richiede uno stravolgimento del modo di insegnare e di valutare e ciò richiede a sua volta di monitorare il processo, lavorare a fondo sulla formazione, condividere esperienze, intervenire sulle caratteristiche dei libri di testo, introdurre misure organizzative che agevolino la rottura della monodisciplinarietà, modificare l’esame di stato. A livello centrale, sino ad ora, si è fatto poco o nulla: qualche conferenza di servizio per i dirigenti, qualche seminario nazionale rivolto a chi sta già operando, condivisione di documenti sul sito dell’Indire e poco altro. Nell’istruzione tecnica si è scelto di accettare la pressione delle associazioni professionali che spingevano per salvaguardare la specificità delle discipline e così uno dei principali elementi di innovazione (l’insegnamento integrato di Scienze) è diventata Scienze Integrate con il trattino, seguito dalla parola magica Fisica, Chimica, Scienze. Le materie sono rimaste distinte, il monte ore teorico e laboratoriale è diminuito e si è richiesta la integrazione. Certo, noi ci si prova, ma sarebbe stato meglio un po’ più di coraggio per evitare di affidare alla buona volontà i processi di integrazione. Le scelte possibili erano due: prevedere un’unica materia con un monte ore cospicuo cui far accedere docenti di più classi di concorso; mantenere la distinzione delle materie ma consentire la unitarietà del docente (attraverso il meccanismo delle classi di concorso atipiche) per almeno due delle tre materie. Non si è fatta né l’una cosa né l’altra e gli editori si sono già adeguati bloccando ogni progetto di testi unificati. È vero, esistono i dipartimenti come luoghi in cui prendere decisioni comuni e far convergere le programmazioni, ma il lavoro del docente ha delle caratteristiche di artigianalità che mal si conciliano con il lavoro in team anche perché l’organizzazione del lavoro e dell’orario non lo agevolano. Non si pronunci, a questo punto, la parola magica autonomia didattica e organizzativa; la si potrebbe pronunciare se la scuola fosse realmente autonoma nella gestione dell’organico, ma così non è e di organico funzionale non se ne parla neanche più. Ancora: come è possibile lavorare sulle competenze se l’aspetto ordinamentale della valutazione non muta e dunque ogni singolo docente e ogni DS viene stretto nella morsa degli scritti canonici e degli orali canonici? Almeno su questo punto si preannuncia qualche novità. Sul piano organizzativo, per stimolare i processi di innovazione le scuole hanno fatto le loro scelte. Per quanto mi riguarda ho preso alcune decisioni relativamente alla struttura delle cattedre: - cattedre orizzontali (solo classi prime) per fisica, chimica, scienze, disegno in modo di agevolare la stesura in termini innovativi delle programmazioni e per ridurre il numero degli interlocutori coinvolti nei processi di interscambio e di verifica del nuovo; - cattedre verticali (cioè dalla prima alla quinta) per alcune materie di area comune quali italiano, inglese e matematica per stimolare il raccordo biennio-triennio e per evitare la divisione del corpo docente in esperti della socializzazione ed esperti della cultura. La cosa non è semplice da realizzare a causa del vincolo rigido delle cattedre a 18 ore che costringe a smentire parzialmente il progetto per far tornare i conti; - stimolo ed indicazione ai docenti di lettere, matematica, scienze delle seconde di impostare l’attività dell’intero anno tenendo conto sia della prova Invalsi finale sia del problema della certificazione delle competenze in uscita per i sedicenni; - affidamento della nuova materia informatica a docenti di triennio della specializzazione di informatica in modo di proiettare i docenti delle aree di indirizzo nelle problematiche del biennio. La cosa si ripeterà l’anno prossimo, in seconda, con la nuova materia di scienze e tecnologie applicate per la quale si cercherà di far convivere un’esigenza di unitarietà (lo specifico del perito industriale che sa di tecnologia, che integra le scienze, che pensa all’organizzazione industriale e alla sicurezza) e un’esigenza di specializzazione (con l’affidamento della docenza ai docenti delle rispettive aree di indirizzo).
Non è solo una questione di soldi, ma di soldi e riforme che diano gambe all’autonomia. Esemplifico con il tema del riorientamento. Allo stato attuale le prime di 28/30 alunni vedono un tasso di bocciature/ ritiri tra i 6 e i 10 alunni per classe. È un tasso scandalosamente alto che corrisponde però alla presenza tra i neo iscritti di alunni che hanno clamorosamente sbagliato indirizzo di studi, e che 30 giorni dopo l’inizio della scuola si rivelano indisponibili a frequentare decentemente, creano problemi all’interno del gruppo classe sia sul piano comportamentale sia su quello dei modelli adolescenziali negativi. Questi alunni andrebbero riorientati ed indirizzati a percorsi di tipo pratico operativo a durata triennale. Sarebbe utile, nella seconda metà di ottobre, procedere ad una riorganizzazione dei gruppi classe e alla istituzione di corsi sul modello dei CFP; ma questi corsi o li hai già (con i 27 alunni canonici e dunque non c’è spazio per nuovi inserimenti) o non li puoi istituire dopo. Accade così che la scuola li chieda - ma le famiglie non li scelgano perché, come è noto, il modello triennale è considerato un ghetto -, i corsi non si attivino e la scuola non li possa istituire in corso d’opera ad organico invariato. Risultato: le classi prime hanno tassi di selezione alti, funzionano male perché i docenti passano metà del loro tempo a fare gli assistenti sociali con le inevitabili ripercussioni sulla qualità dell’insegnamento, quasi un terzo della classe perde un anno di scuola e alcuni di questi alunni escono definitivamente dal circuito della istruzione dopo un paio d’anni di insuccessi. Metà del problema sta fuori di noi e riguarda la mancanza di azioni di tipo programmatorio nell’offerta formativa, cui faccia da pendant una canalizzazione un po’ più rigida basata sui risultati nei processi di scolarizzazione precedenti. Ma poiché affrontare questi temi (che sono normali in Svizzera e Germania) vuol dire essere non politicamente corretti, non se ne parla e si preferisce seguire la linea del rinvio delle scelte e della apertura (teorica) delle opportunità. Abbiamo la scuola più democratica e aperta, sul piano teorico, e più classista e inefficiente sul piano pratico. Ma la programmazione non manca solo nel fissare paletti e regole di accesso ai diversi comparti dell’istruzione, la si ritrova anche nell’apertura di tipologie di istituti e/o indirizzi dove sembra prevalere il principio che fare scuola voglia dire avere un edificio (e avercelo vicino a casa). La Regione recepisce una proposta che viene dalle Province; ma se le Province, a loro volta, concedono tutto ciò che le scuole richiedono, non avremo mai la scuola di qualità. Non ha senso avere gli stessi indirizzi di tecnico tecnologico in scuole che distano 10 km l’una dall’altra. Bisogna accorpare e specializzare. Quella attuale non è concorrenza, è pura demenza costruita su un’idea di scuola basata sulla logica dei mezzi di trasporto. In ognuna di quelle scuole ci sarà una sola sezione per indirizzo, ci saranno cattedre spezzate, docenti che cambiano ogni anno e ci sarà una situazione pessima a livello dei laboratori con tanti tristi ed obsoleti laboratori dappertutto. È la negazione dei principi che stanno alla base della riforma quando afferma che i percorsi «si realizzano attraverso metodologie finalizzate a sviluppare, con particolare riferimento alle attività e agli insegnamenti di indirizzo, competenze basate sulla didattica di laboratorio, l’analisi e la soluzione dei problemi, il lavoro per progetti; sono orientati alla gestione di processi in contesti organizzati e all’uso di modelli e linguaggi specifici; sono strutturati in modo da favorire un collegamento organico con il mondo del lavoro e delle professioni, compresi il volontariato ed il privato sociale. Stage, tirocini e alternanza scuola lavoro sono strumenti didattici per la realizzazione dei percorsi di studio».
A proposito di alternanza, sembra che non ci si renda conto dei
problemi che comporta in termini di organizzazione quando il tessuto
produttivo italiano fatto di imprese medio piccole fa sì che si
riescano a mandare da 1 a 3 studenti in una stessa azienda (ma la
media è 1.5). Ciò comporta un lavoro immane di contatto, ricerca,
convenzionamento cui si è aggiunta di recente un’interpretazione di
Regione Lombardia che rende obbligatorio per la scuola avere un
proprio medico competente. Certo l’alternanza è strategica e chi ci
crede lavora duramente per farla crescere. La passione di docenti e dirigenti ha bisogno di gambe e le gambe sono di due tipi: investimenti e riforme in cui non ci sia scritto che ciò che crea problemi organizzativi o stravolge il quieto vivere è facoltativo e deve essere a costo zero. |