Orecchie da mercante
dal
blog di Giorgio Israel, 24.5.2011
Nell'articolo-post precedente abbiamo parlato delle orecchie da
mercante con cui si usano accogliere le critiche che suonano
sgradite quando non si vuol rinunciare ai propri pregiudizi e alla
propria ideologia.
Ed ecco un altro esempio.
Nel novembre 2010 (6 mesi fa) analizzavamo in un articolo alcuni dei
motivi del crollo delle iscrizioni agli istituti tecnici e
professionali, e il tonfo della riforma di questi istituti, un tonfo
impietoso a fronte del successo delle nuove Indicazioni nazionali
per i licei.
Orecchie da mercante.
Oggi, sul Corriere della Sera si dedica una pagina intera allo
stesso tema come se nulla fosse. Non una parola sulla fasulla
riforma a base di "complessità", "olismo" e "scienze integrate" che
ha gettato questi istituti allo sbando, tanto che molti insegnanti
chiedono di poter far uso di una versione adattata delle Indicazioni
per i licei. Non soltanto. Si intervista il pedagogista Bertagna,
uno dei massimi teorici della complessità, dell'olismo e
dell'"ologramma", sulla base della cui ideologia è stata costruita
una delle peggiori riforme della scuola italiana, la riforma
Moratti.
Domani si svolgerà a Roma una conferenza sul tema degli istituti
tecnici con una nutrita partecipazione di confindustriali e dei
teorici di quella brillante riforma. Così, tanto per confermare il
detto che «errare è umano, perseverare è diabolico».
Ripropongo l'articolo di sei mesi fa:
Dunque, i dati sono confermati: le iscrizioni agli Istituti tecnici
e professionali crollano, quelle ai Licei crescono vistosamente. Le
aziende che già l’anno scorso hanno trovato sul mercato la metà dei
diplomati che erano disposte ad assumere, rischiano di trovarne
sempre di meno.
È da augurarsi che non inizi la consueta tiritera sulle famiglie
italiane che vogliono solo il pezzo di carta che consenta ai figli
di diventare avvocati, medici o professori. Le cause sono più
complesse. Sarebbe sbagliato, sbagliatissimo, riproporre la litania
contro la tradizione “classica gentiliana” che soffoca quella
scientifica-tecnica e getta sugli Istituti tecnici la fama di una
scuola di livello inferiore. Non è così: accanto ai licei classico e
scientifico, l’Italia ha da circa un secolo una tradizione
d’insegnamento tecnico di altissimo livello, ai primi posti in
Europa. Casomai, occorrerebbe chiedersi perché negli ultimi decenni
questa tradizione si sia attenuata e corrotta e l’andazzo negativo
non sia stato invertito dall’ultima riforma. C’è chi dice che la
colpa è del fatto che la riforma è partita in fretta e furia, Così,
le famiglie avrebbero preferito riferirsi a scuole collaudate come i
Licei. Neanche questo è vero, perché anche i Licei sono stati
riformati radicalmente, per indirizzi, struttura, orari e anche per
i contenuti dell’insegnamento, e molto più in fretta e furia dei
tecnici-professionali la cui riforma è in cantiere da molto tempo.
E allora? Allora, per capire meglio, bisogna rifarsi al percorso
della riforma dei tecnici-professionali che è stato a dir poco
tormentato. In questo contesto, la famosa parola d’ordine dell’“essenzializzazione”
– orrido gergo burocratese – ha assunto una valenza non solo
organizzativa ma di contenuto con l’idea di introdurre le cosiddette
“scienze integrate”, un pastone includente le scienze della terra,
la biologia, la fisica e la chimica. Sbagliava chi ha creduto che si
trattasse di un’escogitazione volta a ridurre gli orari e il numero
degli insegnanti. Beninteso, molti insegnanti hanno reagito male
alla prospettiva di dover insegnare materie su cui non avevano
sufficienti competenze. Ma il vero problema è che dietro le “scienze
integrate” c’era soprattutto un progetto ideologico. Esso si basava
sul presupposto che la visione classica della ripartizione della
scienza in discipline sarebbe morta, mentre ora si tenderebbe a
concepirla come un sistema a rete, strutturato secondo una logica di
“emergenza dal basso”. L’idea chiave sarebbe quella della
“complessità”. La realtà deve essere vista secondo una logica
sistemistica, dove il sistema è un insieme di elementi che
interagiscono generando dinamiche che fanno “emergere” qualcosa di
più di ciò che è dato dalle singole parti. Un simile approccio
richiederebbe la rottura dei confini disciplinari, una visione della
conoscenza come un tutto integrato: la scienza è una teoria del
“tutto”.
Una simile visione si accompagna a un’ideologia pedagogica basata
sul costruttivismo sociale e conoscitivo: riferendosi, manco a
dirlo, alle neuroscienze, tale costruttivismo è giustificato da
teorie sulle modalità del funzionamento del cervello, secondo cui
percezione, azione e progetti del soggetto sono una sola cosa.
In realtà, chi conosca un minimo la scienza contemporanea sa bene
che queste visioni “integrate”, basate sui paradigmi della
“complessità” e dell’“emergenza” rappresentano una corrente
minoritaria, se non marginale, e talora aspramente criticata. La
scienza continua ad essere fortemente riduzionista e strutturata per
discipline. Non vale invocare le affermazioni di illustri scienziati
contro gli eccessi dello specialismo, perché da quelle affermazioni
(sacrosante) non discende affatto la richiesta di una dissoluzione
delle ripartizioni disciplinari. Queste ultime, se correttamente
intese, non riflettono una divisione della natura a compartimenti,
quanto l’articolazione della conoscenza in un ventaglio di
metodologie ciascuna delle quali è particolarmente appropriata ad
affrontare una specifica problematica. Viceversa, il trasferimento
metodologico da un ambito all’altro è un’operazione avventata. Per
esempio, i metodi di analisi di provata efficacia in fisica possono
rivelarsi del tutto inappropriati a studiare i fenomeni vitali. Né
l’idea di costruire una metodologia scientifica unificata ha mai
sortito risultati rilevanti. Casomai, ha riproposto il più piatto
riduzionismo, per esempio attribuendo un ruolo esclusivo
all’approccio logico-matematico.
Comunque, tutto ciò è materia di discussione tra gli addetti ai
lavori. Sostenere l’approccio della “complessità” e dell’“emergenza”
è legittimo, ma farlo uscire dal recinto del dibattito specialistico
per farne addirittura un programma di riforma dell’istruzione
scientifico-tecnologica è francamente eccessivo. E tale apparve alle
Società ed Associazioni dei fisici e dei chimici, secondo cui, in
tal modo, si finiva col negare di fatto «all’insegnamento
scientifico la possibilità di svolgere un compito significativo
nella formazione culturale degli studenti». Da cui la richiesta di
mantenere distinti gli insegnamenti scientifici.
È vero che, alla fine, l’impatto delle “scienze integrate” sugli
istituti tecnici è stato smorzato ma la formulazione delle
indicazioni di insegnamento ha conservato quel carattere ideologico,
aggravato dal gergo didattico-burocratese basato sul riferimento
alla solita trimurti delle “conoscenze-competenze-abilità”, che si
risolve in litanie prive di fantasia e di libertà culturale. È
innegabile che si sia prodotto un notevole disagio tra gli
insegnanti, molti dei quali sono fortemente disorientati; e che un
analogo disorientamento si sia prodotto tra le famiglie: il profilo
degli istituti tecnici è apparso molto più opaco e incerto di quanto
fosse in precedenza.
Del resto, se si guarda alle nuove Indicazioni nazionali per i
Licei, non c’è dubbio che proprio in esse si trova espresso molto
meglio un indirizzo scientifico-tecnologico adeguato e moderno. Qui
l’esigenza di mantenere le distinzioni disciplinari si coniuga con
uno sforzo originale di stabilire rapporti interdisciplinari. Le
innovazioni scientifiche si coniugano con l’enunciazione trasparente
dei ponti che possono essere gettati tra matematica, fisica, scienze
naturali, informatica, e anche con le scienze umane.
Se si vogliono fare polemiche vetuste si rischia di non vedere che
la situazione non è tanto brutta come la si dipinge: l’interesse per
gli indirizzi scientifico-tecnologici c’è, ed è stato sostenuto da
una buona riforma dei Licei, come è dimostrato dal successo dei
Licei scientifici, guarda caso proprio nell’indirizzo “scienze
applicate”.
Naturalmente, questo non risolve l’enorme problema degli istituti
tecnici e professionali, la cui funzione non può essere surrogata in
alcun modo. Ma anche gli ambienti industriali, che soffrono di
questa situazione e giustamente se ne lamentano, dovrebbero
riflettere all’opportunità di non affidarsi a ideologie
costruttiviste che ormai fanno acqua da tutte le parti.