L'opinione

Prove Invalsi: principio giusto, metodo errato

Il rischio reale è che – senza la necessaria preparazione – si ibridi ulteriormente la didattica, da una parte continuando a seguire l’impostazione tradizionale, dall’altra volendo insistere nella strategia di imporre test senza riflettere sulle condizioni e sulle strategie attraverso le quali si fa oggi scuola in Italia. Un bricolage pericoloso, che potrebbe avere, tra i vari effetti, un ulteriore abbassamento dei livelli.

di Marina Boscaino Il Fatto Quotidiano, 10.5.2011

I test Invalsi si collocano all’interno di un quadro di riferimento europeo, che vede – legittimamente e in maniera scientificamente significativa – la valutazione nelle sue differenti declinazioni (del sistema, degli istituti, degli insegnanti, degli studenti) come uno degli strumenti necessari per il miglioramento del sistema stesso. Analoghi tipi di prove vengono somministrate nella maggior parte dei paesi europei, dove però esiste una cultura della valutazione storicamente e scientificamente determinata, supportata da investimenti significativi anche in termini di quote percentuali rispetto alla spesa totale per l’istruzione. Esistono istituti, insegnanti, pratiche interessanti di formazione e finanziamenti destinati.

Nel nostro paese i test vanno a cadere in una situazione e in un quadro di disinvestimento pluriennale sulla scuola e sull’istruzione e in un’assenza clamorosa di una pratica valutativa significativa dal punto di vista culturale e scientifico, ancor meno economico. L’impressione è che si tratti di un’operazione di maquillage in salsa pseudo-europea che coglie la scuola totalmente impreparata, sia dal punto di vista delle risorse professionali da mettere in campo, sia da quelle economiche.

Non discuto la validità delle prove in sé, quindi la somministrazione di quiz agli studenti, quanto l’opportunità di erogarle in una scuola impreparata – in primo luogo culturalmente – a riceverle. Non abbiamo bisogno di prove Invalsi per individuare alcuni punti estremamente critici del nostro sistema scolastico. Né abbiamo bisogno di risultati catastrofici per essere in grado di valutare l’inerzia, se non l’ostruzionismo, di chi ci governa. Vedo dunque – ma per il modo pedestre in cui l’operazione viene proposta/imposta e per l’assenza di criteri di preparazione alla somministrazione (e la preparazione dovrebbe essere soprattutto per gli insegnanti) – più svantaggi che vantaggi.

Il rischio reale è che – senza la necessaria preparazione – si ibridi ulteriormente la didattica, da una parte continuando a seguire l’impostazione tradizionale, dall’altra volendo insistere nella strategia di imporre test senza riflettere sulle condizioni e sulle strategie attraverso le quali si fa oggi scuola in Italia. Un bricolage pericoloso, che potrebbe avere, tra i vari effetti, un ulteriore abbassamento dei livelli.

C’è poi un altro enorme problema: il dislivello che esiste tra le prestazioni di aree differenti del Paese: si arriva dall’eccellenza assoluta di Bolzano ai risultati scarsissimi di molte zone del Sud. Si pensa davvero che da test omologanti da Trento a Caltanissetta, da Crotone a Sondrio possa nascere una scuola nuova e migliore? So che don Milani in questo periodo non va molto di moda. Ma ricordo una sua frase: “Non c’è ingiustizia peggiore che fare parti uguali tra diseguali“. Temo che i test Invalsi aumentino solo le diseguaglianze tra ragazzi e istituti.