Istruzione e criteri di valutazione
La scuola dei saperi finiti in un quiz
di Giorgio Israel
l'Occidentale,
12.5.2011
Il dibattito sorto attorno ai test Invalsi rischia di essere inquinato
da tre fattori: corporativismo, estremismo, ideologia. Sarebbe vano
negare che nel sistema italiano dell’istruzione esistano opposizioni
forti e pregiudiziali a qualsiasi forma di valutazione, la quale va
invece fatta, eccome.
Il problema è costruire modalità ragionevoli e meditate. È indubbio
che il ricorso ai test per avere un’idea generale e aggregata
dell’esistenza di capacità minime non può essere contestato a priori
e certe opposizioni estreme non hanno ragion d’essere. Le difficoltà
nascono quando si vuol attribuire alla rilevazione mediante test un
ruolo di gestione del sistema, fino a farne il nucleo di un nuovo
modo di fare didattica e fino a far credere che si possa stimare il
«valore aggiunto di conoscenza e competenza» dei singoli istituti o
addirittura dei singoli insegnanti e dei singoli alunni. Né può
dirsi che questo rischio non vi sia.
Al contrario, esso esiste sia soggettivamente che oggettivamente.
Difatti, è ben attiva un’ideologia che ritiene che la scuola debba
essere trattata come un’azienda con i principi dell’«accountability»
e con l’uso massiccio dei test, disinteressandosi dei contenuti
dell’insegnamento (sulla base del principio strampalato che conta
come si pensa e non cosa si pensa) e che ritiene addirittura che la
didattica debba essere strutturata in funzione del superamento dei
test (il cosiddetto «teaching to the test»).
Questa ideologia proclama la necessità di sostituire al giudizio del
docente la «misurazione oggettiva» degli apprendimenti mediante i
test. Si dice che il giudizio dell’insegnante è viziato dalle sue
visioni soggettive e persino dal suo stato personale, da un mal di
pancia mattutino o da una lite con la moglie.Però, a giudicare da
certi test, si direbbe che chi li ha pensati fosse in preda a
un’emicrania acuta.
D’altra parte, di che stupirsi? Il test è pensato da un «soggetto»,
con le sue idee, le sue idiosincrasie e le sue competenze o
incompetenze e non può fornire standard oggettivi e indiscutibili
come il metro o la bilancia. Queste cose vengono dette ormai da
molte personalità autorevoli, a partire dagli Stati Uniti, ma da noi
si fa finta di nulla gettandosi a capofitto a copiare ciò che
altrove mostra già la corda.
Si diceva che i test sono utili ad accertare livelli minimi di
capacità di calcolo matematico o di competenze grammaticali o
sintattiche. Appena si va oltre si entra su un terreno scivoloso e
aperto a tutte le contestazioni. In questi giorni nelle famiglie e
tra gli studenti si commenta, tra il divertito e l’ironico, il
contenuto talora risibile di certi test, sia di quelli «ufficiali»
che di quelli proposti nella fase di addestramento. In alcuni casi,
si tratta di quesiti di assoluta banalità (anche nel caso delle
medie superiori), in altri di indovinelli sconcertanti.
Ho provato a proporre suggerisco di rinunciare all’uso del termine
ridicolo «somministrare», che evoca l’immagine della purga ad alcuni
matematici di professione un test di geometria vantato come
esemplare da alcuni esperti. Alcuni l’hanno risolto con un’occhiata,
altri sono rimasti disorientati... La ragione è risultata chiara.
Quel test, come quasi tutti quelli di geometria, non comportava
conoscenze matematiche specifiche, bensì la messa in opera di
intuizioni, spesso meramente visive, che non sono un requisito
caratteristico di una persona competente.
Siamo all’enigmistica, neppure a quella delle parole crociate che
richiede almeno conoscenze generiche, e anche un buon matematico non
è necessariamente un buon risolutore di enigmi. Qui si scontano due
difficoltà: la prima è che non esistono più «programmi» e quindi non
esistono conoscenze imprescindibili cui fare riferimento nella
formulazione del test; la seconda deriva dalla versione estrema
dell’ideologia delle competenze, per cui contano soltanto capacità
generiche indipendenti dalle conoscenze. Naturalmente non tutti i
test sono così privi di retroterra conoscitivo da ridursi
all’enigmistica e all’indovinello, ma molti hanno questa discutibile
natura.
Veniamo ora all’altro problema: quello della difficoltà di usare i
test come strumento di «misurazione oggettiva» del «valore aggiunto»
di apprendimento. Il modo più semplice per ottenere una simile
misurazione oggettiva sarebbe di proporre a una classe (o istituto)
lo stesso test all’inizio e alla fine dell’anno e misurare
l’incremento delle risposte esatte: sarebbe una soluzione ridicola
perché tutti in seconda battuta saprebbero risolverlo.
Bisognerebbe allora proporre un nuovo test di pari difficoltà,
misurando l’incremento delle risposte esatte, oppure proporre un
test più difficile. Ma nessuna persona seria sosterrà che sia
possibile determinare in modo oggettivo se un test ha lo stesso
grado di difficoltà di un altro, o determinare che il test A è una
volta e mezzo più difficile del test B.
È vano tentare di nascondere la soggettività (nella costruzione dei
test e nel giudizio circa il loro valore e la loro difficoltà) come
la spazzatura sotto il tappeto con la scopa della retorica.
Ma c’è un problema ancor più grave, ed è il pericolo che prevalga
l’ideologia estrema che vuole trasformare la didattica in
addestramento a superare i test. Si poteva sperare che questo
rischio fosse lungi dal realizzarsi. Invece, si è assistito al
dilagare di un numero impressionante di «eserciziari» e libretti di
addestramento al superamento dei test Invalsi, che hanno invaso le
scuole e che hanno indotto non pochi insegnanti a interrompere la
didattica ordinaria per addestrare gli studenti a superare i test e
far fare bella figura all’istituto, all’insegnante e alla scuola.
Ora, già la qualità dei libri circolanti nella scuola italiana,
soprattutto nel primo ciclo dell’istruzione, non è brillante. Con
l’alluvione di eserciziari di addestramento si è verificata
un’ulteriore avvilente discesa verso il basso. Per questo, le voci
che si sono levate ad ammonire sui rischi del ricorso smodato e
acritico ai test, come quella di Luca Ricolfi, non hanno peccato di
allarmismo e vanno ascoltate. Il «teaching to the test» non deve
entrare assolutamente nella scuola italiana.
Sia ben chiaro: non si tratta di negarsi alla valutazione, ma di
ricordare che il modo migliore per far fallire ogni tentativo di
introdurla è procedere in modo acritico e dogmatico. Un approccio
ragionevole su cui aprire una riflessione costruttiva potrebbe
essere quello di considerare un ricorso molto limitato al sistema
dei test per valutare tendenze generali aggregate, e fondare
piuttosto il sistema di valutazione su procedimenti ispettivi le cui
modalità possono essere attentamente costruite riflettendo sui pro e
i contro di altre esperienze già collaudate all’estero.