SCUOLA
Se i nativi digitali vanno fuori di testa, intervista a Federico Tonioni il Sussidiario 20.5.2011 Internet e social network danno sempre più da pensare a genitori e insegnanti. I «nativi digitali» invece minacciano una rivoluzione silenziosa. Preoccupano i fautori dell’insegnamento tradizionale, fanno gridare al miracolo gli innovatori e grattare il capo ai pedagogisti, incerti se si tratti soltanto di un banale segno dei tempi o della sospirata possibilità di plasmare indefinitamente il cervello umano. Nel frattempo lasciano perplessi molti professori, disarmati e impotenti di fronte agli sguardi inebetiti dei loro allievi, che chattano per ore ma non sanno fare un discorso - come ha scritto Paola Mastrocola - più lungo di venti secondi.
A volte però i nativi digitali si ammalano, anche. E allora sono i
medici a doversi occupare di loro. Uno di questi è Federico Tonioni,
autore di Quando Internet diventa una droga, appena uscito per
Einaudi, psichiatra e responsabile al Policlinico Gemelli di Roma
del primo centro italiano specializzato nella cura della
web-dipendenza.
Mi occupo di tossicodipendenza da sempre. Nell’ambito del mio lavoro
ho notato dei cambiamenti basali nel modo di pensare proprio
all’interno dei colloqui che io ho con i miei pazienti storici
tossicodipendenti, come se fosse cambiato qualcosa a livello
strutturale, nella mente. Soprattutto nei giovani. Ho individuato,
insieme ad altri psichiatri che si occupano di altre forme di
psicopatologia, una distanza intergenerazionale fra i pazienti più
elevata del solito. Mi sono chiesto che cosa potesse averla
provocata. Tra i tanti fenomeni sociali, la rivoluzione digitale è
sicuramente quello più violento nella velocità con cui si è
istaurato. Abbiamo così avviato un esperimento pilota: un
ambulatorio per la dipendenza da Internet (in America già ce
n’erano). La cosa ha provocato una enorme risonanza mediatica. Era
il novembre 2009.
Seconda realtà per noi, unica realtà per i nuovi adolescenti, perché
non conoscono un «prima» del digitale. Dovrebbero essere gli adulti
a capire, più che chiedere ai giovani di fare un passo indietro, che
essi non possono fare perché non sanno dove farlo.
Ma detto tra noi, che differenza c’è? Tutto ciò che è funzione
mentale ha una risonanza sulla struttura cerebrale. Dopo il Nobel di
Gerald Edelman (1972, ndr) sappiamo che c’è una plasticità neuronale
sia come funzione sia come morfologia. La nostra vita quotidiana ce
lo spiega meglio di qualsiasi teoria. Prima il telefonino e poi la
diffusione del computer su vasta scala hanno totalmente cambiato il
nostro modo di metterci in contatto. Grazie alla tecnologia dovremmo
avere moltissimo tempo libero, e invece accade esattamente
l’opposto. Ha mai notato che grazie alla capacità di travalicare i
limiti spazio temporali, tendiamo a fare tutto contemporaneamente?
Questo mondo cambiato lo abbiamo presentato ai nostri figli in
assoluta buona fede. Ma le basi della nostra mente si costituiscono
in relazione con il mondo esterno dai zero ai sei anni. Essendo
cambiato l’oggetto-mondo, anche il prodotto delle interazioni è
cambiato con il mutamento degli ambiti spaziotemporali.
L’adolescenza enfatizza la risonanza di questi fenomeni.
Certo. Gli adolescenti di oggi hanno una emotività diversa da quella
dei loro coetanei della nostra generazione. I cambiamenti sono
legati essenzialmente al nostro personale senso del limite. Oggi è
facilissimo travalicarlo attraverso il web. Ma quando le
informazioni invece di essere orizzontali sono profonde, allora
andare fuori di noi stessi può diventare un problema per la
costituzione dell’identità. Per cui all’interno di internet e dei
social network, soprattutto se evito un incontro «vero», dal vivo,
io posso rappresentare me stesso in maniera ideale all’infinito, e
questa è una fortissima tentazione per gli adolescenti.
Perché l’adolescenza è quel periodo drammatico che vede il corpo
cambiare di colpo e la mente doversi adeguare a questo corpo. Non ci
siamo mai guardati tanto davanti allo specchio come quando eravamo
adolescenti... Il «come» ci presentiamo e come ci rappresentiamo è
cruciale nell’adolescenza, e il virtuale oggi interviene
precisamente in questa dinamica dell’autoidentificazione. Può essere
una risorsa se l’esito finale è «reale», cioè quello di una vita dal
vivo, ma può divenire un problema se la persona rimane prigioniera
della sua rappresentazione.
Ho classificato cinque forme di dipendenza da Internet: la
pornografia online, video e chat erotiche; il gioco d’azzardo
online; l’information overload (la ricerca incessante di
informazioni inutili, senza scopo, ndr); i social network e i giochi
di ruolo. Questi sono i casi più frequenti.
Sono per lo più adolescenti o ventenni che vengono individuati dai
genitori. Poi, dai trent’anni in su, ci sono quelli in genere
afflitti dalla pornografia e dal gioco d’azzardo online. Presentano
comportamenti compulsivi legati a una dipendenza comportamentale.
Ricordano molto i cocainomani, i bulimici. È un comportamento per il
quale il protrarsi della durata della ricerca rappresenta la cosa
più piacevole rispetto alla conclusione dell’atto in sé, cosa che
avviene in tutti i modelli compulsivi.
I pazienti più giovani sono del tutto inconsapevoli di avere una
dipendenza, inizialmente. A parte Internet questi ragazzi non hanno
conflitti con i genitori. Anziché un conflitto, che in fondo è una
forma fisiologica di comunicazione, hanno un vuoto, un’assenza. In
questi casi è il genitore che provoca il figlio. La domanda più
frequente ai figli è: che fai su Internet? Risposta: quello che
fanno tutti i miei amici. Il conflitto avviene quando il genitore è
esasperato perché Internet è un mondo a lui sconosciuto, su cui non
ha controllo. Il comportamento che vedono è che i ragazzi tornano a
casa e con lo zaino ancora sulle spalle accendono Facebook o i
giochi di ruolo. Anche mentre studiano, tengono sempre un occhio sul
monitor.
Esistono sintomi di intossicazione e sintomi di astinenza, ma i
primo sono molto più frequenti dei secondi. Se si limita forzandolo
l’uso del computer ad un ragazzo che ne è dipendente, la reazione è
di rabbia improvvisa, fino ad aggredire i genitori. Sono invece più
frequenti e sfumati i sintomi di intossicazione, i quali si
traducono sostanzialmente in uno stato dissociativo, che si innesca
su internet, ma che tende a riattivarsi in automatico anche quando
non si è connessi.
Se lavoriamo al computer siamo concentrati, facciamo operazioni
sotto il controllo dell’io cosciente. Se invece chattiamo, giochiamo
o navighiamo sul web per ore entriamo in uno stato molto simile al
sogno ad occhi aperti che, a differenza di quel che avviene
normalmente nella fisiologica distrazione quotidiana, diviene uno
stato di dissociazione basale. In altre parole, è la durata che lo
fa diventare patologico. Nel mentale la quantità determina la
qualità, cioè più faccio una cosa più tendo a rifarla
automaticamente. È quello che accade nel gioco virtuale o nella
navigazione web a-finalistica. Lo stato dissociativo, nelle sue
declinazioni patologiche, sfocia in un distacco dalla realtà
facilmente osservabile e documentabile.
I social network sfruttano questo meccanismo. Mentre il gioco
d’azzardo e la pornografia sono degli atti comportamentali molto
circoscritti e specifici, l’oggetto della dipendenza nel social
network sarebbe la relazione con l’altro, che è nientemeno che il
nostro «ossigeno», perché senza la relazione con l’altro non c’è
evoluzione nel pensiero né nel modo di comunicare. Ora, il social
network ha un primo livello di utilizzo assolutamente normale, in
cui è goduto e se ne traggono vantaggi in termini di possibilità di
comunicazione. Ma ad un secondo livello il social network può
diventare uno schermo, una barriera contro gli stimoli. Un ragazzino
timido che corteggia una compagna di banco, ad esempio, magari non
ha il coraggio di invitarla per una pizza. Allora la «incontra» su
Facebook. Ma su Facebook la relazione interpersonale presenta una
diversità fondamentale: non c’è la corporeità. Tutto ciò che passa
per il corpo, le emozioni, il linguaggio non verbale, è inficiato su
Internet. Accade dunque che se quel ragazzino, dopo aver conosciuto
meglio online la ragazzina, riesce a invitarla a mangiare una pizza,
il monitor, la distanza fisica è stata funzionale, non patologica:
ha fatto del bene. Ma può darsi che questo non avvenga, e che quello
virtuale rimanga l’unico livello di relazione.
Sì, perché c’è poi un terzo livello, il più grave, in cui ci si
mette in relazione solo con il mezzo. Qui troviamo chi gioca a carte
con il computer, chi fa il gioco di ruolo con il computer... questi
sono contesti di dipendenza stretta. Per quanto riguarda invece
tutto il mondo del social network, piuttosto che di dipendenza
patologica, io parlerei di psicopatologia web-mediata.
Cerco dei punti deboli... Spesso questi pazienti sono soli, non
riescono ad uscire, razionalizzano tutto, dal punto di vista
razionale sono più maturi della loro età. Emotivamente però hanno
molte difficoltà, proprio perché le emozioni, nell’ambito degli
affetti, sono le uniche che passano per il corpo. Il rossore del
volto dice tutto, ci rivela. Il linguaggio del corpo e delle
emozioni che passano per il corpo non sono programmabili, e rendono
non programmabili le relazioni dal vivo. Il linguaggio non verbale
si attiva solo se i corpi sono vicini. Su Internet, se noi parliamo
di cose imbarazzanti, e ci vediamo tramite una webcam, non
arrossiamo. Non è così per il cinema: se guardo un film e mi
commuovo, è perché quello che vedo mi ricorda un’esperienza.
Nella ricostruzione di una totalità della relazione, rispetto alla
quale la patologia costituisce la deformazione abnorme del momento
parziale.
È esattamente questo. La terapia è una riabilitazione delle
emozioni, della capacità di riconoscerle dando ad esse un nome. Le
emozioni sono le grandi assenti nelle relazioni web-mediate, perché
sono esperibili soltanto con il corpo fisicamente presente. Le
persone che preferiscono la relazione web-mediata a quella della
presenza in toto sono soggetti che hanno un preesistente problema
con le emozioni, il quale si cronicizza con internet, ma che spesso
è stato introdotto con il frapporsi del monitor nel rapporto
figli-genitori. Esempio classico: il genitore che non ha voglia di
giocare col figlio e lo piazza davanti ad uno schermo sul quale fa
andare un dvd.
Sì. Non è una madre che dice: «perché piangi?» a fare da specchio,
ma un monitor. E lo fa in maniera totalmente diversa.
È completamente assente, esattamente come lo è quello con la
sessualità e come lo è, per quanto strano possa sembrare, quello con
altre droghe. Mentre chi si «fa» di cocaina può dipendere anche dal
gioco d’azzardo o avere una sessualità compulsiva, nel caso di
web-dipendenza non ho mai riscontrato fenomeni di co-dipendenza.
Importantissimo, perché la natura è un mondo di emozioni. Ho
insistito con la madre di un paziente perché gli comprasse un cane.
Badare a un cane significa usare le mani, toccarlo, sentirne
l’odore; «contattarlo», viverlo. Guarire vuol dire passare dalla
manualità confinata alla console, dalla quale dipende la
sopravvivenza virtuale dell’avatar, a quella che interessa un essere
vivente che vive anch’esso di vita propria. Come la nostra. Dobbiamo rassegnarci al fatto che se vogliamo essere noi stessi non possiamo essere onnipotenti. Il nostro essere noi stessi è delimitato dai nostri limiti. Dobbiamo rispettarli. Essi sono i nostri confini, non i nostri deficit.
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