Investiamo sui professori Andrea Gavosto* La Stampa, 1.5.2011 Premessa: non ho nulla contro la scuola privata - o privata paritaria, come è più corretto definirla. E credo che si debbano ricercare soluzioni per favorire la libertà delle famiglie nella scelta della scuola per i propri figli, anche attraverso forme di deducibilità fiscale. Detto questo, però, non credo affatto che la crescita della componente paritaria sia un passaggio cruciale e urgente per risolvere i molti problemi della scuola italiana e soprattutto per affrontare la sfida più seria: migliorare la qualità degli apprendimenti, portando la quasi totalità degli studenti a un livello tale da garantire loro una prospettiva di lavoro interessante e una piena partecipazione alla vita civile, e tale anche da fornire all’Italia un capitale umano all’altezza delle proprie ambizioni nell’economia internazionale. Come sappiamo sia dai risultati delle prove Invalsi sia dalle rilevazioni internazionali, questo livello è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, sebbene gli ultimi risultati di Ocse-Pisa 2009 diano qualche segnale incoraggiante. Ciò avviene perché in Italia permangono enormi divari territoriali nella qualità degli apprendimenti, che penalizzano soprattutto - anche se non indistintamente - le regioni del Sud, dove quasi uno studente su tre si trova al di sotto del livello minimo accettabile: non ha, cioè, le competenze che gli consentono «di partecipare efficacemente e produttivamente al mondo reale». Chi - come noi della Fondazione Agnelli - crede che il primo obiettivo sia ridurre questi divari sa che un problema di questa portata non si risolve attraverso la diffusione della scuola paritaria. Tanto più che è difficile pensare che questa possa svilupparsi in modo significativo nelle regioni oggi più svantaggiate, soprattutto al di fuori dei grandi centri urbani. Si potrebbe obiettare che il capitale umano del Paese si rafforza non solo facendo salire coloro che oggi stanno troppo in basso, ma anche aumentando il numero di chi sta molto in alto, le cosiddette eccellenze: anche lì, infatti, non vantiamo risultati troppo lusinghieri. E questo potrebbe essere un mestiere proprio della scuola privata, così come avviene in molti Paesi avanzati, a giudicare dalle recenti statistiche dell’Ocse. Consentitemi di dubitarne. In primo luogo, le ricerche internazionali dimostrano che equità ed eccellenza non sono in opposizione, ma generalmente vanno insieme; lo vediamo anche in alcune regioni italiane. Inoltre, sappiamo che in Italia vi è una differenza significativa nei risultati, a svantaggio delle scuole private, una volta che si sia tenuto conto del retroterra familiare dei ragazzi. Infine, anche gli approfondimenti condotti dalla Fondazione Agnelli nelle scuole superiori in Piemonte e in Emilia-Romagna (altre regioni presto si aggiungeranno) confermano che gli istituti paritari non brillano per il contributo - o «valore aggiunto» - che danno alla qualità degli apprendimenti. E ciò non riguarda solo i famigerati «diplomifici», ma spesso anche istituti - laici o religiosi - di antica tradizione. Considerando, infatti, le competenze di partenza, pure questi ultimi fanno progredire in media i propri studenti meno dei migliori istituti statali. In conclusione, se in Italia vogliamo tanto ridurre il numero insopportabile di studenti al di sotto di una soglia minima di competenze quanto incrementare le eccellenze, la questione vera è come reimpiegare bene e in modo selettivo le risorse che in questi anni si sono risparmiate nella scuola statale (e magari, compatibilmente con i vincoli di bilancio, trovarne di aggiuntive). Per noi, gli investimenti nel reclutamento, nella carriera e nella formazione degli insegnanti vengono al primo posto, seguiti da quelli per il consolidamento del sistema di valutazione nazionale. Tutto il resto, comprese le polemiche sugli istituti privati e gli orientamenti politici degli insegnanti delle statali, è ideologia: un lusso che l’Italia e la sua scuola oggi non possono più permettersi.
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