Esami di stato 2011:
un modello da ripensare
di Antonio Valentino ScuolaOggi,
6.7.2011
Ormai, con lo svolgimento dei colloqui, anche l’Esame di stato 2011
si avvia ad essere archiviato.
Lasciando dietro di sé polemiche antiche e nuove e qualche speranza
che, finalmente stanchi e anche un po’ disgustati (ovviamente
tralascio le eccezioni, che non fanno testo), si tenda a cambiar
pagina.
Le riflessioni che vorrei svolgere riguardano tre nodi scoperti
dell’attuale modello: la prima e la terza prova scritta e i criteri
di ammissione agli esami.
Un approfondimento richiederebbe anche il colloquio conclusivo: ma
si tratta di questione che ha più a che fare con i problemi di
gestione, che, a loro volta, rinviano a quelli della professionalità
docente. E più precisamente a quegli aspetti del profilo che vanno
sotto le categorie del ‘coordinamento’ e del ‘lavorare in team’, ma
anche dell’’ascolto’ e del ‘relazionarsi in una logica di
reciprocità’.
Aspetti problematici su cui una formazione solida e diffusa potrebbe
costituire leva importante di miglioramento. Solo che se ne avesse
la consapevolezza e si prevedessero investimenti. Ma, almeno su
questi ultimi, sembra di capire - dal vento che tira -, “che non è
cosa”.
Sulla prova di “Italiano”
Continuo a non capire, dopo tanti anni di esperienze sul campo, qual
è il senso della prima prova scritta, così come è strutturata
nell’attuale modello.
La norma le attribuisce il compito di “accertare la padronanza della
lingua italiana …, nonché le capacità espressive,
logico-linguistiche e critiche del candidato”.
Eppure, a leggere le tracce che si propongono ogni anno non riesci a
capire dove si voglia andare a parare e quindi cosa si voglia
realmente accertare. E ciò a prescindere dai contenuti proposti.
Che appaiono sempre di più ottimi espedienti, almeno nella
maggioranza dei casi, per arrampicature sui vetri di varia caratura
e rischiosità. Quest’anno si sono preferiti, come si sa, i vetri di
‘Passione, odio, amore’; e del ‘Siamo cosa mangiamo’, con tanto di
punto interrogativo”, ma anche di ‘Destra e sinistra’. Per non
citare il tema di argomento storico in cui si chiede agli studenti
di “riflettere”, nientemeno, sul concetto di “Secolo breve” di
Hobsbawm e di “valutarne criticamente la periodizzazione proposta e
soffermarsi sugli argomenti caratterizzanti”. Studenti che, per
diverse ragioni, si sono ben guardati, anche solo per un attimo, dal
prendere tale traccia in considerazione . (Ci sono state eccezioni,
anche lodevoli, ma in percentuali che neanche lo share dell’ultima
impresa televisiva di Vittorio Sgarbi…!).
Ad ogni buon conto, ha senso – c’è da chiedersi – in un esame di
stato a conclusione del ciclo di istruzione superiore, andare ad
accertare la padronanza della propria lingua madre? (Padronanza che
- a scanso di equivoci - rappresenta comunque un ‘prius’, un
requisito in assenza del quale non si dovrebbe accedere all’esame).
E, se proprio si vogliono accertare le capacità logiche e critiche
come è scritto nella legge -, siamo sicuri che le “lenzuolate” di
questa prova (sei pagine fitte, corpo 9, che anche solo a leggerle e
capirle ti ci vuole almeno un’ora, se sei bravo), costituiscano la
forma più adatta ed efficace?
Comunque, quello che mi preme sottolineare è che, anche per la prima
prova scritta, se pure la si vuol conservare, i ragionamenti da fare
riguardano la dimensione sistemica (la natura di sistema)
dell’esame, la chiarezza degli oggetti valutativi e la loro coerenza
rispetto al profilo in uscita dell’indirizzo seguito.
In altri termini: l’idea dominante dovrebbe essere quella di un
esame legato alla specificità degli indirizzi, che sia attento alle
competenze chiave di carattere trasversale e che assuma il porre
problemi e la loro impostazione e risoluzione come la modalità
principe dell’operazione (è questo, credo, il cuore della
certificazione delle competenze in uscita).
Penso che solo in quest’ottica l’esame di stato potrà recuperare
senso e dare senso ai percorsi didattici che ad esso preparano.
Sulla terza provaIl secondo nervo scoperto riguarda la
terza prova scritta.
Alcuni giorni fa, quando il rito della “maturità” la faceva da
padrone su giornali e TV, il Ministro ci ha richiamato che dal 2012
la terza prova degli Esami di Stato (quella multidisciplinare,
predisposta dalla commissione su argomenti delle materie dell’ultimo
anno) cambierà completamente connotati. Nel senso che diventerà una
prova, sempre pluridisciplinare, ma a carattere nazionale (i test
saranno cioè elaborati centralmente).
Ce ne aveva già parlato lo scorso anno, sempre la Ministra, più o
meno in questo stesso periodo.
Si tratta di innovazione che va valutata positivamente (aspettiamo
comunque di vedere il decreto ministeriale, promesso, come si
diceva, da almeno un anno) e questo perché l’attuale terza prova,
per come di fatto si configura (ora è lasciata alla responsabilità
delle singole commissioni), è, spesso – come sperimentiamo da più di
un decennio - , una operazione appiattita sui test di simulazione
delle scuole, sostanzialmente nozionistica e senza capo né coda.
Come ben sa anche chi con un po’ di buon senso considera la
questione, i test d’esame permettono di verificare ben poco della
effettiva preparazione degli studenti nelle materie considerate;
inoltre, essendo strutturati su contenuti e secondo finalità
diversissimi da commissione a commissione, non permettono confronti
e rilevazioni sensate (nonostante la presenza di una ‘banca
nazionale’ alla quale in pochissimi attingono), capaci di dare gambe
e valore ad un curricolo nazionale, per quanto sobrio ed essenziale.
Va rilevato inoltre che, delle varie tipologie previste -
trattazione sintetica di argomenti, quesiti singoli o multipli,
soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o sviluppo
di progetti - (L. 425/997, art. 3 c.2), solo le prime due risultano
di fatto “gettonate” dalle scuole e quindi dalle commissioni.
Pertanto le pratiche comuni un po’ a tutte le commissioni
schiacciano sul nozionistico l’insieme della prova, depotenziandola
degli aspetti più innovativi, legati alla soluzione di problemi o
allo sviluppo di progetti; e quindi all’accertamento di competenze -
chiave del profilo in uscita.
C’è da chiedersi quali possano essere state le ragioni per cui sono
prevalse le pratiche riduttive e poco sensate che in tanti
lamentano. Senz’altro sono diverse. Penso però che esse vadano
soprattutto ricercate nella mancanza, dalla prima ora, di una
formazione mirata e “obbligata” dei docenti e dei dirigenti; per cui
un certo pressappochismo e una qualche incoerenza, rispetto agli
oggetti di verifica e valutazione, han finito col creare situazioni
diffuse di inadeguatezza e vacuità.
Nessuno quindi, credo, si dorrà di questo cambiamento previsto per
il prossimo anno. Anzi.
E, a chi pensa che possa essere un attacco all’autonomia delle
scuole (in effetti, la terza prova scritta era stata pensata come
“espressione dell’autonomia didattico – metodologica e organizzativa
delle Istituzioni scolastiche” in quanto “strettamente correlata al
POF di ciascuna di esse”), si può facilmente rispondere che il
terreno di prova dell’autonomia non può essere dato dalle modalità
frantumate e incerte di accertamento della preparazione che abbiamo
sperimentato in questi anni e che quindi il recupero di un minimo di
unitarietà culturale delle nuove generazioni, attraverso una prova
pluridisciplinare nazionale e ben pensata, non può che fare bene al
nostro sistema di istruzione.
Ben venga quindi questo cambiamento. Purché non lo si assuma come
innovazione isolata e lo si caratterizzi rispetto a obiettivi e
finalità – e quindi a dispositivi di accertamento – chiari e
precisi. Lontani cioè dalle ambiguità che oggetti e forme ossificate
di quest’ultimo decennio hanno conferito a un esame di Stato, quello
varato nel 97, che quando è stato introdotto aveva pure buoni
elementi innovativi (poco valorizzati dal mondo della scuola, per
responsabilità che vanno, anche qui, cercate in varie direzioni).
Allora potrebbe essere buona cosa, nel definire i lineamenti di
questo cambiamento:
uno: rileggere la norma con la quale è stato inserito nel nostro
ordinamento e verificare se i suoi contenuti innovativi - che pure
si possono cogliere nei passaggi riportati - vadano riscoperti e
attualizzati in forme nuove e, soprattutto, considerati in termini
di fattibilità;
due: rendere più stringente il rapporto tra accertamento delle
conoscenze, attribuito a prove strutturate, e verifica delle
competenze-chiave trasversali (dalla correlazione dei saperi al loro
uso in contesti diversi, dalla impostazione di un problema alla
strutturazione di un progetto, …);
tre: fare uso di una logica di sistema nella sua predisposizione. Si
tratta di capire come gli accertamenti di questa prova si correlano
con quelli delle altre prove e in che misura costituiscono tessere
di un’operazione valutativa tendenzialmente organica e mirata (in
altri termini: no agli enciclopedismi e agli accademismi, tentazioni
mai completamente vinte della didattica nostrana).
In quest’ottica andrebbe introdotta, impostata e praticata,
finalmente, la certificazione delle competenze di cui si parla per
la prima volta – ‘solo’ 14 anni fa! – nella legge istitutiva
dell’attuale Esame di stato (la L. 425 del ‘97).
Ma i ragionamenti fatti richiedono, per avere gambe, condizioni
precise. In primo luogo: crederci; e, subito dopo – e ancora una
volta - , investire (sì, investire), coinvolgere, formare,
sperimentare.
Il discorso del ministro sulla terza prova, apprezzabile in sé, o si
misura con tali questioni oppure è aria fritta o gattopardismo puro.
O entrambi.
Sui criteri di ammissione agli Esami
Un terzo nervo scoperto è quello dell’ammissione. Secondo la norma
introdotta lo scorso anno, “sono ammessi all'esame di Stato gli
alunni che ……nello scrutinio finale conseguano una votazione non
inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina ……(articolo 6, comma
1, D.P.R. 22 giugno 2009, n.122).
Se n’è parlato a lungo e in modi accesi, soprattutto nelle scuole,
in occasione degli scrutini finali delle quinte dell’anno scorso.
Quest’anno si è preferito alla polemica, l’’aggiustamento’ di buon
senso già sperimentato negli scrutini del 2010. E suggerito
implicitamente, anche se contradditoriamente, dallo stesso Ministro,
quando aveva dichiarato che “Non si ammette uno studente solo perché
ha un cinque in una materia”.
In ogni caso la questione rimane aperta ed urgente anche perché pone
problemi non da poco.
Li riassumerei così:
• i risultati di apprendimento non possono essere valutati in
termini frammentati e in una logica di separatezza delle discipline,
ma in rapporto alla formazione costruita nel corso della vita
scolastica dello studente; gli studenti vanno valutati non tanto
sulla base del rendimento in una singola disciplina, quanto
piuttosto sulla preparazione complessiva e sull’adeguatezza o meno
di tale preparazione al profilo in uscita dei vari indirizzi di
studio;
• il vincolo di legare l’ammissione ad una votazione di sufficienza
in tutte le materie non tiene in ogni caso conto del principio di
realtà e costringe i CdC a operazioni di facciata (sufficienze
formali) per dare agli studenti, complessivamente preparati (pur se
con qualche risultato parzialmente negativo in qualcuna delle non
poche discipline dei Piani studi), la possibilità di misurarsi in
autonomia con l’EdS. Il rischio evidente del criterio adottato è che
un dispositivo pensato per favorire l’eccellenza diventi, di fatto,
un possibile strumento di livellamento valutativo.
Sarebbe un bel segnale se il Ministro ascoltasse al riguardo le
molte e sensate voci del mondo della scuola.
Il nostro problema però è che abbiamo un ministro che avrà anche
tanti meriti, a volerglieli riconoscere, ma quanto ad ascolto è
decisamente scarso.
Bisognerebbe forse unire tutte le voci in campo. Chissà… .